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Don Burgio: «Il papà di Ramy, quelle parole gli fanno onore»


di Alessandro Stella

Le dure proteste e la guerriglia urbana che nei giorni scorsi hanno visto protagonista un gruppo di 70 ragazzi stranieri e italiani nel quartiere Corvetto in seguito alla morte di Ramy Elgaml -il 19enne egiziano deceduto cadendo da una moto domenica scorsa, dopo un inseguimento con i carabinieri nelle strade di Milano- rappresentano il culmine di un periodo dove la violenza giovanile rischia ormai di diventare un fattore insito nella città meneghina e nel resto d’Italia. Don Claudio Burgio, cappellano del carcere minorile Beccaria di Milano, prova a fare luce sulle dinamiche e sui fattori che creano scenari giovanili e sociali sempre più turbolenti.

Don Claudio, partiamo dai fatti avvenuti a Corvetto dopo la morte di Ramy. Cosa rappresenta una protesta di tale portata, con così tanti giovani protagonisti?
«Premetto per correttezza che in questi giorni non ho avuto molto modo di seguire da vicino la vicenda. Quello che mi sento di dire è che c’è stato un caso eclatante e la rabbia di tanti giovani è esplosa in modo molto violento. Ma si tratta di una situazione che va avanti da molti anni, legata ai contesti in cui questi ragazzi vivono». 

Quindi la rabbia dei ragazzi a Corvetto parte da più lontano?
«È una rabbia che può sembrare improvvisa, ma in realtà è latente e pervasiva. Nasce tutto da un grande vuoto identitario. Molti ragazzi di seconda generazione non trovano un senso di appartenenza e non sentono ancora un vero legame con il nostro paese. Le loro radici sono lontane e a ciò si unisce la povertà economica ed educativa. Questa protesta è allargata e si riflette nelle condizioni di vita marginali che gravano su tanti giovani».

Il padre di Ramy ha fatto un appello contro la violenza. Parole importanti e distensive…
«Sono dichiarazioni importanti e che fanno onore a questo padre soprattutto in un momento simile, dopo la perdita tragica di un figlio. Ma spesso in certe situazioni i genitori vivono un grande senso di colpa».

Si spieghi meglio…
«Tante volte la violenza giovanile nasce da dinamiche familiari dove non c’è comprensione tra genitori e figli. Molti di questi padri e madri hanno storie migratorie complesse. Sono persone che in passato hanno fatto magari fatica ad ottenere i permessi di soggiorno o a trovare stabilità qui in Italia. E ora non comprendono il disagio dei loro figli. Questi genitori credono di aver dato loro tutto: una casa, la possibilità di crescere nel nostro paese al netto magari di una situazione economica non facile. Ma non si rendono conto che ciò ai ragazzi non basta. La vita in un contesto di povertà porta purtroppo ad avvicinarsi alla violenza».

 


Don Claudio Burgio, cappellano del carcere minorile Beccaria a Milano



Si può in generale parlare di effetto Banlieue a Milano e in alcuni suoi quartieri? 
«Sicuramente si tende sempre di più ad evocare simili situazioni parigine. Attualmente penso che certi paragoni siano esagerati. Non possiamo negare tuttavia che certi segnali siano già presenti anche a Milano. Serve affrontare il problema concretamente, altrimenti questo accostamento rischia di diventare normale».

Quali interventi sociali servono per garantire davvero il benessere dei giovani in certe zone di Milano?
«Per prima cosa molti quartieri vanno riqualificati. La questione abitativa resta uno dei problemi più grandi di questa città. Tante case rimangono sfitte, abbandonate a sé stesse e poi sono rese abusive. E i ragazzi crescono in queste realtà. Servono interventi importanti, ma ormai sono troppi anni che la situazione è trascurata. Non bastano i finanziamenti pubblici di breve durata. I tanti interventi fatti sul terzo settore sono lodevoli ma non sono sufficienti». 

Gli oratori e lo sport possono essere fattori per una crescita giovanile priva di violenza?
«Potrebbero essere, ma non è così facile per gli oratori essere luoghi di interazione per i giovani di seconda generazione. Ora molti oratori non sono nemmeno preparati ad affrontare queste situazioni o non esistono proprio. A San Siro ma anche in tante altre zone di Milano mancano completamente spazi aggregativi per i giovanissimi, che spesso si ritrovano fin da piccoli in situazioni di abbandono e solitudine. Tutto ciò poi sfocia purtroppo spesso in rabbia e violenza. Lo sport invece sicuramente è lo strumento di aggregazione giovanile per eccellenza, nei quartieri e così come ad esempio negli istituti di recupero. Ma anche qui servono le giuste condizioni».

Il rapporto tra giovani e forze dell’ordine è sempre più teso rispetto a qualche anno fa. Si può parlare di clima repressivo da parte delle istituzioni? 
«Il tema è delicato, attuale e va visto da entrambe le parti. Alcune condotte sono ingiustificabili e richiedono un inevitabile intervento. Certo in tante altre situazioni alcune risposte delle forze dell’ordine non sono più facili da accettare. Oggi i giovani si ribellano all’autorità intesa come esercizio dispotico di potere. I ragazzi non vedono nelle forze dell’ordine un aiuto ma un ostacolo e il rapporto si fa sempre più teso. E alcuni errori li commette anche chi si occupa della formazione delle forze dell’ordine. Attualmente la distanza tra le parti sembra abbastanza netta e il dialogo difficile».

Secondo alcune indagini sempre più giovani vanno in giro con il coltello.  Cosa spinge un ragazzo ad uscire di casa armato? 
«Uno dei motivi principali è legato alla “moda”. Per chi ha un vuoto identitario l’arma dà forza e consistenza alla propria personalità. E fa parte dell’immagine che poi si espone sui social. Un altro motivo meno esplorato è che molti ragazzi, spesso fragili, escono armati per paura. Intendono l’arma come strumento di autodifesa e poi purtroppo a volte si ritrovano ad usarlo in alcune situazioni prive di pericolo effettivo. Al Beccaria mi capita di vedere arrivare ragazzi accusati di tentato omicidio, che in realtà poi hanno un carattere estremamente fragile».

Capitolo scuola: un’educazione non violenta è ancora possibile negli istituti scolastici?
«La scuola per me resta uno dei luoghi principali dove sviluppare la non violenza. Per farlo però i docenti devono essere in grado di entrare nelle dinamiche del gruppo-classe e non sempre ci riescono. Servono dunque anche pedagogisti e psicologici che intervengano tempestivamente e aiutino gli insegnanti. Il bullismo è una delle cause principali della nascita della violenza in un giovane. Al Beccaria molti ragazzi hanno subito atti di bullismo fin dalle elementari e poi, nel tempo, la loro rabbia è esplosa nel modo sbagliato».

 

 





Dal sito Famiglia Cristiana

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