Tijuana: chi non ha sentito almeno una volta pronunciare il nome di questa città associato all’alcool, la tequila, o alla perdizione? O non si è imbattuto in qualche immagine del muro che divide Stati Uniti e Messico e che nasce qui direttamente dall’oceano Pacifico. Capitale dello Stato federale della Bassa California a Tijuana, lungo il muro, che copre quasi per intero il confine tra Messico e Stati Uniti, fino a qualche anno fa s’infrangevano tra disperazione, sconforto, ma anche la violenza dei coyote, i trafficanti di esseri umani, e morte, i sogni di molti migranti.
Donne, uomini e bambini che dopo aver affrontato mille peripezie attraversando a piedi montagne, fiumi, foreste e il deserto, o dopo aver sfidato il pericolo delle bande organizzate disposte a tutto per guadagnare sulla pelle di questi disperati oggi si sta assistendo a un percorso inverso. Oramai non sono più “solo” i migranti in cerca del sogno americano a essere accolti e assistiti alla Casa del Migrante.
«Oltre il 50% di coloro che ogni giorno bussano alla porta della Casa gestita da quasi quarant’anni dai padri scalabriniani è costituito da deportati. Molti di loro hanno vissuto negli Stati Uniti quasi tutta la vita, poi un’infrazione stradale o un piccolo incidente con il conseguente controllo dei documenti portano la polizia a scoprire la loro clandestinità, anche se del loro paese di origine non conoscono nulla perché l’hanno lasciato quando avevano due anni. Il loro futuro è segnato. In molti casi, prima di essere rispediti al di là del muro che qualcuno vorrebbe ancora più alto, i migranti sono reclusi nei famosi detention centres e soltanto dopo un processo, che può durare due o più anni, vengono consegnati alle autorità messicane», dice il direttore, padre Patrick Murphy, scalabriniano newyorkese di 72 anni che ora parla «meglio lo spagnolo dell’inglese», dice con un sorriso intenso come i suoi occhi azzurri.
Da 12 anni guida le operazioni della casa con la collaborazione di un folto gruppo di volontari, tra cui Alma Ramirez, 25 anni, ex volontaria che ora lavora come operatrice nella ricerca fondi e coordinatrice dei progetti della casa: «Un lavoro continuo, giorno e notte, fatto anche con la generosità di tante persone che danno una mano offrendo aiuto nei modi più diversi. Oggi», spiega Alma «ospitiamo 139 persone tra famiglie con bambini e uomini soli che devono lavorare per stare qui e noi li aiutiamo in questo percorso. È un modo per essere autonomi, ma anche per avere un’occasione di incominciare una nuova vita se decidono di fermasi a Tijuana. Qui inoltre li aiutiamo con uno sportello legale a fare i documenti e a procedere con le richieste di asilo».
Alma Ramirez
Al piano terra dello struttura c’è poi l’asilo per i bambini più piccoli, ma per quelli più grandi il centro scalabriniano aiuta le famiglie a iscriverli alle scuole pubbliche della città per contrastare la dispersione scolastica. E a soli 10 minuti c’è il centro scalabriniano di formazione per migranti che offre corsi di avviamento al lavoro, ma anche di inglese. Lezioni gratis per i migranti e aperte a tutta la comunità di Tijuana e che durano fino a 2 mesi. «Ci sono persone che non sanno di avere la possibilità di studiare di nuovo anche da adulte ed è così che scoprono di avere dei talenti da coltivare», spiega Alma.
Nella Casa del migrante infatti le persone singole possono stare fino a 45 giorni, mentre le famiglie anche 3 mesi, ma si valuta da caso a caso», chiosa padre Patrick. Che aggiunge: «Queste persone vengono trattate come braccia finché servono negli Stati Uniti, e poi diventano scarti, noi mettiamo al centro la loro dignità dando un tetto gratuitamente in cambio del rispetto delle regole della casa e della cura degli spazi comuni. Non solo, da alcuni anni abbiamo anche un ambulatorio medico interno al centro dove per 4 volte alla settimana c’è un dottore, e per 6 giorni viene una psicologa, perché per chi ha vissuti come i loro è importante anche la cura della salute mentale».
Con il nostro lavoro vogliamo far capire alle autorità, messicane e statunitensi, che società civile e le realtà religiose sono in prima linea e hanno dovuto prendere atto del fatto che questo movimento migratorio, non è un’emergenza ma una necessità: per un miglioramento economico, per scappare dalla criminalità o dalle conseguenze devastanti a quelle latitudini della crisi climatica. Gli stati preferiscono impiegare le loro risorse economiche per rinforzare barriere e costruire muri a tutto vantaggio del border management, trasgredendo i più basilari diritti dell’uomo. La nostra Casa, i nostri volontari e queste persone che accolgiamo rappresentano la speranza che un modo diverso di accogliere i migranti esiste. E funziona», conclude padre Patrick.
© foto da Tijuana, Bassa California, Messico, di Luca Cereda