San Carlo Borromeo è un personaggio centrale della storia ecclesiastica e anche civile del Cinquecento la cui opera, specialmente per Milano, ha superato la forza dell’oblio. È patrono di catechisti e vescovi. L’emblema è il bastone pastorale.
La biografia: nato da famiglia nobile, divenne cardinale a 22 anni
Nato nel 1538 nella Rocca dei Borromeo, sul Lago Maggiore, era il secondo figlio del Conte Giberto e quindi, secondo l’uso delle famiglie nobiliari, fu tonsurato a 12 anni. Studente brillante a Pavia, venne poi chiamato a Roma, dove venne creato cardinale a 22 anni.
Fondò a Roma un’Accademia secondo l’uso del tempo, detta delle «Notti Vaticane». Inviato al Concilio di Trento, nel 1563 fu consacrato vescovo e inviato sulla Cattedra di sant’Ambrogio di Milano, una diocesi vastissima che si estendeva su terre lombarde, venete, genovesi e svizzere. Un territorio che il giovane vescovo visitò in ogni angolo, preoccupato della formazione del clero e delle condizioni dei fedeli.
Fondò seminari, edificò ospedali e ospizi. Utilizzò le ricchezze di famiglia in favore dei poveri. Impose ordine all’interno delle strutture ecclesiastiche, difendendole dalle ingerenze dei potenti locali.
Un’opera per la quale fu obiettivo di un fallito attentato. Durante la peste del 1576 assistette personalmente i malati. Appoggiò la nascita di istituti e fondazioni e si dedicò con tutte le forze al ministero episcopale guidato dal suo motto: «Humilitas». Morì a 46 anni, consumato dalla malattia il 3 novembre 1584.
Orazio Borgianni, San Carlo Borromeo
La carriera a Roma
Nel caso di Pio IV ci troviamo davanti ad un raro caso di nepotismo positivo per la Chiesa. Il Papa promosse immediatamente i due nipoti: Federico (1561) ebbe la carica di capitano generale della Chiesa, Carlo non ancora ventiduenne, fu nominato cardinale con un incarico che oggi potremmo chiamare di Segretario di Stato.
Poco dopo gli affidò anche l’amministrazione della diocesi di Milano con l’obbligo di restare però… a Roma. E questa non era l’unica carica. Ne ebbe parecchie altre con l’inevitabile cumulo anche dei rispettivi benefici economici. Gli storici dicono che l’accordo tra Papa e nipote fu sempre perfetto. Carlo nonostante le cariche rimaneva sempre un uomo di cultura.
Al tal fine fondò un’accademia a carattere umanistico-letterario, composta da amici, chiamata Notti Vaticane. Si era anche comprato un fastoso palazzo con servitù a seguito, in cui organizzava fastosi e festosi ricevimenti. Erano i tempi: il tutto non per vanità ma perché lo riteneva opportuno per la carica che ricopriva e per la fama e decoro della famiglia da cui proveniva.
La morte del fratello Federico e la nuova vita di penitenza
L’improvvisa morte del fratello Federico (1562) gli fece cambiare radicalmente vita. La interpretò come un segno da parte di Dio per riformare la propria vita ancor più in senso evangelico. Così cambiò radicalmente: addio ai festosi ricevimenti, addio ai divertimenti anche moralmente leciti, addio alle Notti Vaticane che divennero un cenacolo di cultura religiosa. Ridusse il proprio tenore di vita, intensificando la penitenza, i digiuni e le rinunce.
Riprese inoltre, con più impegno, la propria formazione teologica e pastorale. Era pur sempre vescovo di una diocesi anche se non esercitava direttamente. Il Papa vide perplesso la trasformazione in senso ascetico del prezioso nipote (che qualche volta chiamava “il mio occhio destro”).
Scosse la testa: il tutto gli sembrava esagerato. Giunse persino a sgridarlo (addebitando l’eccessivo zelo ascetico ai consigli dei suoi direttori spirituali e all’influsso di personaggi contemporanei del calibro di Ignazio di Loyola, Gaetano da Thiene, Filippo Neri: tutti Santi). Il Papa lo scoraggiò, lo rimproverò, ma lo lasciò fare, e alla fine lo imitò.
San Carlo assiste lo zio Pio IV sul letto di morte
Il “regista” del Concilio di Trento
Ma il più grande merito di Carlo Borromeo fu convincere il Papa a riconvocare il Concilio di Trento sospeso nel 1555. Se questo lavorò tanto e bene e se finì gloriosamente e proficuamente per la Chiesa (1563) il grande merito fu di Carlo. Egli ne fu la mente organizzatrice e l’ispiratore. Nel luglio 1563, fu ordinato sacerdote e poco tempo dopo vescovo.
Voleva fare il pastore di anime nella sua diocesi di Milano e ne aspettava l’occasione. Il Concilio era finito ma bisognava assicurarsi che anche il successore di Pio IV avesse l’intenzione di continuare la riforma che ne era scaturita. Carlo credeva nell’azione dello Spirito Santo nella direzione della Chiesa, ma, nello stesso tempo, faceva umanamente quello che lui stesso pensava utile.
Al vecchio e ammalato zio infatti suggerì i nomi dei nuovi cardinali del futuro conclave: doveva promuovere solo quelli favorevoli alla riforma della Chiesa voluta dal Concilio di Trento. Fatto questo gli chiese di poter presiedere, come legato papale, il consiglio provinciale che si teneva a Milano (la sua diocesi) per attuare le disposizioni conciliari.
Lo zio Papa acconsentì. E Carlo partì. Ma poco tempo dopo dovette in tutta fretta fare ritorno a Roma (in compagnia di Filippo Neri) perché il Papa era ormai alla fine. Pio IV infatti morì tra le sue braccia il 9 dicembre 1565.
Un “pastore di ferro” per Milano
Nell’aprile del 1566, raggiunse Milano, dove iniziò subito la grande opera di riforma secondo il Concilio di Trento. Fu un organizzatore geniale e un lavoratore instancabile tanto che Filippo Neri esclamò: “Ma quest’uomo è di ferro”. Organizzò la sua diocesi in 12 circoscrizioni, curò la revisione della vita della parrocchia obbligando i parroci a tenere i registri di archivio, con le varie attività e associazioni parrocchiali.
Si impegnò molto nella formazione del clero creando il seminario maggiore e minore. Fu soprattutto instancabile nel visitare le popolazioni affidate alla sua cura pastorale e spirituale, iniziando la sua prima visita nel 1566 subito dopo l’arrivo a Milano.
La sua visita in una parrocchia era preparata spiritualmente con la preghiera e con la predicazione che doveva portare ai sacramenti. Il vescovo all’inizio faceva una riunione con i notabili del paese ai quali chiedeva tra l’altro: “Come si comportano in chiesa i parrocchiani? Ci sono eretici, usurai, concubini, banditi o criminali? Ci sono seminatori di discordia, parrocchiani che non osservano la Quaresima?… I padri di famiglia educano bene i propri figli? Non c’è lusso esagerato nel vestire da parte degli uomini e delle donne? Se ci sono delle istituzioni di beneficenza e di aiuto sociale, sono ben amministrate?”. E altre domande simili. Come si vede concrete.
Il trionfale ingresso di San Carlo a Milano nel dipinto di Filippo Abbiati
L’attentato del 1569 per il suo disegno di riforma dell’Ordine degli Umiliati
San Carlo incontrò difficoltà e talvolta anche ostilità. Come nel caso dell’attentato che subì il 26 ottobre 1569 ad opera di quattro frati dell’Ordine degli Umiliati. Uno di questi gli sparò mentre era in preghiera nella sua cappella privata. Motivo? Il Borromeo voleva riformare quell’ordine religioso ormai decaduto. Ma le riforme proposte furono viste dagli Umiliati come umiliazioni. La pallottola gli forò il rocchetto, ma lui rimase illeso miracolosamente ed il popolo lo interpretò come un segno dall’alto della bontà delle sue riforme. E gli Umiliati, di nome, furono umiliati anche di fatto e per sempre con la loro cancellazione definitiva.
Ma lo spessore della sua personalità di pastore e del suo amore più grande che “dona la vita per i suoi amici”, la mostrò in occasione della peste del 1576. Assente dalla città perché in visita pastorale, rientrò subito, mentre il governatore spagnolo e il gran cancelliere fuggivano via. Fece subito testamento sapendo che la peste non aveva riguardo per nessuno, nemmeno per l’alto clero: organizzò l’opera di assistenza, visitò personalmente e coraggiosamente i colpiti dal terribile morbo, aiutò tutti instancabilmente fino al punto da meritarsi un rimprovero dal Papa di Roma.
Nonostante tutta l’attività pastorale, il Borromeo fece quattro viaggi a Roma e quattro a Torino. Era molto devoto della sacra Sindone. Fu proprio nel 1578 che i duchi di Savoia la portarono a Torino perché al vescovo di Milano, che aveva chiesto di venerarla personalmente, fosse risparmiato il difficile e pericoloso attraversamento delle Alpi (motivo ufficiale), ma anche per difenderla dalle brame dei Francesi (motivo politico). L’esposizione della reliquia fatta a Torino nel 1978 fu per ricordare questo suo arrivo nella città.
A causa della sua attività pastorale senza sosta, dei frequenti viaggi, delle continue penitenze, la sua salute peggiorò rapidamente.
La morte lo colse preparatissimo il 3 novembre del 1584, ed il suo culto si diffuse rapidamente fino alla canonizzazione fatta nel 1610 da Paolo V.
Carlo Borromeo moriva fisicamente ma la sua eredità, fatta di santità personale e di azione instancabile per la Chiesa era più viva che mai, e sarebbe continuata nei secoli. Fino ad oggi.