Dal Beccaria di Milano, al Ferrante Aporti di Torino, le carceri minorili, che il provvedimento noto come Decreto Caivano ha contribuito ad affollare stanno diventando una polveriera. E intanto la criminalità minorile fa sempre più notizia sui media. Abbiamo chiesto a Mauro Grimoldi, che nella vita fa lo psicologo giuridico, autore di Dieci lezioni sul male: i crimini degli adolescenti (Raffaello Cortina Editore), di aiutarci a capire chi sono i ragazzi che finiscono oggi in carcere e qual è la strada per rendere più efficace, nel rispetto, dei diritti l’azione dello Stato nei loro confronti.
Dottor Grimoldi, il Decreto Caivano, sorto sull’onda delle violenze di gruppo a delle ragazzine, ha aumentato il numero dei minorenni che finiscono in carcere. Lei ha detto che quel provvedimento è stato un’occasione persa. Che cosa significa?
«Come ci sono gli instant book, nel nostro Paese ci sono le instant lex, leggi che nascono sull’onda della stretta attualità, dell’emotività, dal fatto che viene portata l’attenzione su un tema su cui solitamente invece c’è un certo silenzio istituzionale. Nel merito è un’occasione persa perché nel nostro Paese invece si potrebbe fare molto sul versante della criminalità minorile, grazie alle leggi all’avanguardia che abbiamo e che però non sono applicate compiutamente».
Ci fa un esempio?
«Per dirla nella maniera più semplice e meno tecnica possibile, il Dpr 448 è una legge che si basa su un assunto molto preciso: non ci possiamo permettere che un minore a 14, 15, 16 anni cominci una carriera criminale che potrebbe andare avanti fino alla fine della sua vita attiva. Questo non per buonismo nei confronti di quel minore che peraltro ha tutto il diritto di potersi vedere recuperato e a una risoluzione di quella che è una patologia della sua relazione con il mondo, ma perché non possiamo permetterci di lasciare che quel ragazzo continui per tutta la vita a far del male a molte altre persone e a lederne i diritti, i beni e qualche volta anche la salute fisica. Il Dpr ci offre un ventaglio di strumenti che non si limitano all’applicazione del principio della bilancia, tanto ai fatto tanto di punisco. Perché noi sappiamo che il carcere porta a una recidiva del 70-80%, che può scendere fino al 30% con la messa alla prova applicata bene».
Eppure da ciò che scrive lei non sembra in assoluto contrario al carcere. È così?
«Non è possibile, a mio personale giudizio, se non in un’ottica demagogica, oggi rinunciare al carcere. Si può pensare di superarlo, ma in prospettiva futura come obiettivo, nel frattempo però in alcuni casi non maggioritari resta un male necessario, il punto sta nel distinguere dagli altri quei casi. Il Dpr prevede all’articolo 9 la valutazione della personalità che solo alcuni tribunali per minorenni sono messi in condizione di realizzare in maniera compiuta. Eppure è fondamentale: mai prenderei una medicina senza sapere qual è la diagnosi, l’origine del male. Se non so qual è l’origine del comportamento antisociale di quel ragazzo difficilmente interverrò con il “farmaco” giusto per recuperarlo. In quest’ottica ha poco senso vincolare il carcere al tipo di reato, come ha fatto il Decreto Caivano nell’ottica di un giro di vite e non alla diagnosi del comportamento».
Quando il carcere diventa un male necessario?
«Quando un minorenne, in rari casi, dimostra di saper delinquere già come un adulto, con una capacità di premeditazione. Oppure quando cui ci sono dei minori che commettono reati sulla scorta di una dimensione di forte impulsività, di una costruzione di argini interni non sufficientemente funzionali, che hanno la necessità di una protesi: questi ragazzi non avendo limiti interni costruiti, hanno bisogno di muri, di limiti esterni, di contenimento rispetto a questa impulsività che non trova argini. Bisogna che lo Stato dica loro di no e non può fare altro, in un certo momento della loro vita, che confinare la loro libertà, al momento non confinata da regole etiche interne sufficienti a garantire la sicurezza loro e del resto del mondo».
E invece quali sono i minorenni che oggi finiscono in carcere?
«Sono circa l’1% dei ragazzi che commettono reati, e sono quelli cui non si riesce ad applicare sanzioni alternative perché vivono nei contesti più disagiati, quelli le cui famiglie non offrono loro una dimensione di sostegno e di supporto quando sono in quella situazione, quindi che non sono in grado di offrire un contenimento educativo minimo e quindi una garanzia dal punto di vista sociale. Oppure i ragazzi che hanno commesso i reati più gravi. Questo ci dice due cose: che già oggi non è al carcere che affidiamo la nostra sicurezza sociale e che il carcere per sua natura è uno strumento delicatissimo per la sua utenza e per le sue caratteristiche».
È per questo che è così complesso da gestire?
«Non dobbiamo mai dimenticare che dentro quel contenitore noi troviamo un’istituzione totale, dominata dalla cultura della sopraffazione, della violenza, della forza, dell’imposizione di sé rispetto all’altro. In carcere la gerarchia di valori è rovesciata rispetto a quella che troviamo fuori: è molto facile che in carcere un minore che ha commesso un reato più grave sia più stimato di un minore che ha commesso un reato meno grave questo rende molto difficile l’utilizzo efficace del sistema carcere e la sua gestione».
Si spiegano anche così le violenze del Beccaria e le rivolte di giovani detenuti in queste ore a Torino?
«C’è un’inchiesta in corso e quindi io non entro assolutamente nel merito di quello che è accaduto all’interno dell’Istituto Penale Minorile Beccaria, però possiamo dire in generale che è assolutamente complessa la gestione di un carcere anche per chi in quel luogo lavora, non solo per chi è detenuto. Perché l’istituzione totale ha un effetto psichico per tutti. Il carcere è un luogo estremamente complesso, il cui uso va attentamente calibrato».
Par di capire che non siano la maggioranza i minori che delinquono per mancanza di freni inibitori, è così?
«Sono in aumento i minori che commettono reati sulla scorta di una dimensione di conflitto con il mondo esterno che ha a che fare con quello che percepiscono come un confronto impari. In alcuni di loro la relazione con il confine tra sé e l’altro si arroventa, diventano fortissimi i sentimenti di invidia e di gelosia, ed è questo rapporto impari con l’altro, questo senso di essere perdenti rispetto al mondo, che li fa reagire. E i banchi di prova sono spesso l’amore o la scuola, i punti di passaggio in cui l’adolescente si scontra con la sofferenza della frustrazione, davanti alla quale alcuni reagiscono con la violenza».
Sono condizioni che si verificano anche in contesti sociali non degradati, in famiglie normali. Come prevenire il rischio che questi sentimenti si traducano in violenza?
«Gli adolescenti attuali sono più fragili di quelli precedenti, che crescevano in famiglie più autoritarie, che non è il caso di restaurare perché producevano altri guasti. Quello che dobbiamo fare è mettere in campo è mettere in campo degli strumenti che sarebbero stati inutili o eccessivi anche soltanto 20, 30 o 40 anni fa, come per esempio i sostegni psicologici nelle scuole».