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“Non processate quella mamma, sconta già un ergastolo di dolore”. La richiesta del Pm tra diritto e umanità

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Quale pena uno Stato potrebbe mai aggiungere all’ergastolo emotivo che già sconta una mamma destinata a trascorrere tutta la vita a confrontarsi con il senso di colpa e il dolore di aver commesso un tragico errore costato lesioni permamenti al suo bambino di 18 mesi? Che cosa significa fare giustizia in casi come questo, in cui è la vita a incaricarsi da sola di una condanna smisurata? 

È a questa domanda che il sostituto procuratore Paolo Storari sembra cercare risposta, nella richiesta di archiviazione inviata al Gip di Milano, nella quale cerca una strada per evitare alla sfortunata mamma un processo e una pena in senso legale, dato che a quelli in senso morale, istruiti e inflitti dalla coscienza devastata, non c’è rimedio. 

Sa il Pm, – che a dispetto di come spesso lo si dipinge non è, non ancora almeno, nell’ordinamento italiano, pubblico accusatore per definizione – , che la porta della legge è stretta: per la colpa senza coscienza di chi fa un errore senza rendersene conto (in questo caso un incidente con la macchina durante una manovra in uno spazio privato ha portato all’investimento accidentale del bambino) la legge non lascia libere le mani al magistrato. 

In questi casi, nella prassi, si cerca di ridurre il danno: la soluzione largamente praticata è proporre alla madre «di patteggiare una pena minima», con «pena sospesa», ma il Pm ne sottolinea l’ingiustizia sostanziale di un diritto che finisce così per strumentalizzare la persona per affermare un principio: «In questi casi», scrive il Pm , «l’applicare una pena da parte dello Stato «non serve a nulla, anzi appare addirittura controproducente, non avendo il diritto penale alcuna funzione da svolgere, né per il reo né per la collettività». Nessuna capacità di prevenire reati simili con effetto deterrente, nessuna esigenza di  rieducazione per quella madre che certo non intendeva delinquere, ma ha danneggiato suo figlio non volendolo affatto, anzi; senza rendersi conto di quanto accadeva.   

Il Pm propone in alternativa al giudice di cercare se esistano nell’ordinamento «valvole di sfogo che consentono di escludere la punibilità (e anche “la pena del processo”) in modo che il diritto venga «praticato: non tanto come valore in sé» come «strumento per arrivare alla soluzione più giusta, in un’ottica di umanità del punire che avvicina le norme alle persone (e non viceversa).  Quella valvola, propone, potrebbe essere la legge che dal 2014 consente di archiviare per “tenuità del fatto”. Ma la strada è impervia: sono esclusi dal legislatore infatti i casi la cui conseguenza sono la morte o le lesioni gravissime”. Si tratterebbe di applicare la legge  interpretando come «lievi» anche i «fatti che, pur provocando gravi lesioni, siano connotati da colpevolezza minima», ed evitando «una sproporzione tra reato e pena, che verrebbe in buona sostanza inflitta due volte».

L’altra sola possibilità, secondo il Pm, sarebbe portare il caso davanti alla Corte costitzionale, per chiedere alla Corte se sia legittimo l’articolo 583, al punto in cui punisce le lesioni personali gravissime cagionate per colpa incosciente dalla madre al figlio per valutare se non ci sia contrasto con l’articolo 27 della Costituzione: «Una eventuale condanna o lo svolgimento di un processo a carico dell’indagata costituirebbe una sorta di trattamento contrario al senso di umanità». Quella mamma «sconta già una sorta di “ergastolo con fine pena mai” e una eventuale pena statale non avrebbe alcuna funzione, qualunque sia la teorica a cui ci si ritenga di ispirare». 

«Il principio di umanità della pena», scrive Storari, «richiama lo Stato, ossia il titolare della potestà punitiva, al rispetto di una superiorità, etica e deontologica, rispetto al crimine e al suo autore: ad evitare la degenerazione che vorrebbe replicare alla violenza con la violenza, e così stabilendo una differenza fondamentale che separa la pena dalla cieca vendetta. (…) Ma la portata del principio può spingersi anche oltre, rendendo – ad esempio – plausibile e giustificabile la scelta di non irrogare la pena in casi nei quali il soggetto, nella vicenda concreta, abbia già subito» una sorta di “pena naturale”, «ossia una grave conseguenza afflittiva che, di fatto, renderebbe l’ulteriore sanzione non solo sproporzionata per eccesso ma persino «inumana».

Non è la prima volta che nei Tribunali capita di confrontarsi con situazioni come queste in cui il caso concreto chiederebbe di ridurre i danni mentre il giudice deve scontrarsi con leggi troppo rigide, che si prestano a far parti eguali tra diseguali, favorendo ingiustizie nella sostanza.

Non per caso vicende come quelle di cui parliamo sono state discusse come casi di scuola per criticare l’eccessiva rigidità della legge sull’omicidio stradale, pensata per colpire condotte gravi come la guida in stato di ebbrezza o sotto l’effetto di stupefacenti, ma scritta in modo da prestarsi a infierire anche su casi come quelli di questa mamma. 

Sono i casi a proposito dei quali si discute dei rischi connessi alla futuribile applicazione al diritto dell’intelligenza artificiale: casomai ci si arrivasse un’IA saprebbe porsi gli interrogativi di questo Pm e cercare le soluzioni non solo giuridicamente ma anche umanamente percorribili?

Se n’è parlato anche a proposito dell’opportunità di introdurre test attidudinali per l’ingresso in magistratura, previsti dal 2026, domandandosi se non possano favorire un conformismo giudiziario che mal si presti all’elasticità di affrontare drammi come quello che qui si pone

Alla radice di questi casi c’è infatti un tema che interroga da millenni la filosofia e l’etica: il rapporto tra il diritto e la giustizia e la giustizia nel suo significato profondo, concetti che hanno radici lontane e che non sono estranei al dettato evangelico: si pensi a concetto del sabato per l’uomo contrapposto all’uomo per il sabato.

Il tempo dirà quale soluzione troveranno quel giudice e l’ordinamento per il caso di quella mamma sfortunata, ma il solo fatto che si affronti il tema di una giustizia non discosta dall’umano aiuta a riconciliarsi con un argomento su cui il dibattito pubblico è troppo spesso avvelenato.





Dal sito Famiglia Cristiana

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