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Quando Dante scrisse ai cardinali riuniti in Conclave a Carpentras


Dopo la morte di Clemente V, nella primavera del 1314, durante la cosiddetta cattività avignonese, il “Sommo Poeta” rivolse una lettera accorata ai cardinali italiani, esortandoli con forza a ritrovare l’unità e ad accordarsi per dare alla Chiesa un Pontefice che riportasse a Roma la sede del papato

Eugenio Murrali – Città del Vaticano

Dante aveva a cuore il futuro della Chiesa, con cui spesso nella sua vita e nella sua opera intrattené un rapporto contrastato. Un episodio lega il Divin Poeta alla tortuosa storia dei Conclavi, a uno in particolare, travagliatissimo. Nella primavera del 1314, i cardinali sono riuniti nella cittadina francese di Carpentras. Bisogna eleggere il successore di Pietro dopo Papa Clemente V, arcivescovo di Bordeaux che aveva spostato la sede del papato da Roma ad Avignone. Dante decide di scrivere ai cardinali italiani, sferzandoli in una lettera, l’epistola XI, che ha interrogato molti esegeti per la sua complessità e per la ricchezza di allusioni.

Ascolta l’intervista a Gian Luca Potestà

Un testo, molte edizioni

“La passione civile e la passione ecclesiastica sono in Dante profondamente frammiste, unite”, spiega Gian Luca Potestà, storico del cristianesimo dell’Università Cattolica di Milano, che nel 2021, in occasione del settecentesimo anniversario dalla morte di Dante, ha pubblicato una nuova edizione critica della lettera e una ricca, aggiornata esegesi: Dante in conclave. La Lettera ai cardinali (Milano, Vita e Pensiero, 2021, 232 pagine, 23 euro). Continua lo studioso: “Dante ha ancora informazioni di prima mano su come si sono svolte le vicende in occasione del precedente Conclave, quello del 1305, e ora vuole assolutamente evitare che si vada avanti in quella direzione”.

Un lamento sulla sorte di Roma

L’epistola XI si apre con una citazione dal libro delle Lamentazioni (1,1) attribuito al profeta Geremia: “Quomodo sola sedet civitas plena populo, facta est quasi vidua domina gentium!”, “Come sta sola la città piena di popolo, la signora delle nazioni è diventata come una vedova!”. Il grido riferito a Gerusalemme diventa, metaforicamente, una severa denuncia della situazione romana a inizio Trecento, della mancanza di unità dei cardinali che aveva appunto portato, nel Conclave di Perugia del 1304-5, all’elezione del guascone Bertrand de Got e all’inizio della cattività avignonese, situazione che ora, nel Conclave del 1314, rischia di perpetrarsi.

Per la sposa di Cristo

Alighieri, come si legge nella sezione finale, vuole che i porporati si battano uniti, “pro sponsa Christi, pro sede sponse, que Roma est, pro Ytalia nostra et, ut plenius dicam, pro tota civitate peregrinante in terris”, “per la sposa di Cristo, per la sede della sposa che è Roma, per la nostra Italia e, per dirlo in modo più ampio, per la città intera pellegrina sulla terra”. Spiega Potestà: “La finalità è molto chiara: riportare la sede del Papato a Roma, perché in quanto città divinamente scelta, grazie al martirio di Pietro e alla morte di Paolo, è la sede più idonea.”

Orso e il Trasteverino

“Mi pare evidente che il destinatario principale sia il cardinale Napoleone Orsini, d’altra parte Dante gli si rivolge in maniera diretta, rimproverandolo per la scelta fatta nel 1305, quando lo chiama con il vocativo ‘Urse’”. L’altro cardinale che Dante addita è indicato con il soprannome di Trasteverino. L’ipotesi sostenuta da Gian Luca Potestà è che si tratti di un cardinale defunto, Matteo Rosso Orsini, cugino di Napoleone, che era stato il suo grande avversario nel Conclave. L’oggetto del contendere erano i cardinali Giacomo e Pietro Colonna che Bonifacio VIII aveva privato delle insegne. Napoleone avrebbe voluto il loro reintegro, Matteo Rosso, in sintonia con il defunto Papa, no. Questa divisione avrebbe favorito l’elezione di Clemente V, che però riabiliterà i Colonna.


La copertina del libro di Gian Luca Potestà sull’epistola XI di Dante

La copia unica di Boccaccio

La lettera è arrivata a noi grazie a un codice illustre ma isolato. Abbiamo infatti un unico testimone, il manoscritto Pluteo 29.8 della Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze, convenzionalmente definito lo Zibaldone Laurenziano di Giovanni Boccaccio, che come è noto era grande estimatore di Dante e ha contribuito in maniera decisiva alla tradizione delle sue opere. Il latino del poeta appare difficile, oggetto nel tempo di molti emendamenti, a volte dovuti più alla complessità e all’imperscrutabilità di taluni passaggi che a una reale necessità filologica. Molti critici si erano allontanati nel tempo dal testo tramandato dall’autore del Decameron, mentre Potestà, nella sua edizione, ha cercato di riavvicinarsi al manoscritto, anche grazie all’aiuto del paleografo Paolo Cherubini, e di purificare quanto più possibile l’epistola dalle correzioni arbitrarie.

L’audacia di Dante

Dante era consapevole della responsabilità di cui si faceva carico, con l’audacia di rivolgersi ai cardinali. Tra i molti riferimenti, colti, più o meno palesi, sempre affascinanti, di cui il poeta arricchisce la sua lettera, c’è quello a Uzzà. Traduce Potestà: “Forse attaccherete sdegnati: ‘E chi è costui, che, non temendo la repentina punizione subita da Uzzà, si leva verso l’arca, per quanto sia traballante?’”. Leggiamo nel commento: “Uzzà, che, incaricato di seguire il trasferimento dell’arca a Gerusalemme, intervenne per raddrizzarla a evitare che si rovesciasse lungo la strada. Gesto utile a impedire il peggio, ma profanatore […] l’arca non poteva essere toccata da mani impure; Uzzà – nel sapere biblico e canonistico medievale comunemente considerato tipo dei laici – non aveva diritto a toccarla, per questo Dio lo fulminò sul posto (2Sam 6,3-8)”.

La precisazione del poeta

Ma Dante, precisa nella lettera, non si trova nella stessa condizione del personaggio biblico. Spiega Potestà nella sua analisi: “Nell’affermare la propria distanza da Uzzà, chiarisce ma non attenua la portata antigerarchica e anticlericale della propria denuncia: diversamente da lui, non sta toccando l’arca (sacrosanta) issata sul carro della Chiesa, ma cerca di riportare sulla retta via i buoi recalcitranti che, lasciati a se stessi, ne hanno portato il carro fuori rotta”.

Un messaggio universale

Leggere oggi l’epistola XI di Dante ci dice qualcosa di più sulla sua figura, spesso guardata solo come quella del “Divino Poeta”. Qui Dante appare, afferma Potestà, come “un laico che ha il coraggio della parresia, di esporsi in prima persona e di dire quello che va detto ai cardinali nel momento in cui stanno operando una scelta che comporta un’enorme responsabilità per il destino futuro della Chiesa”. Conclude lo studioso: “Quello che viene da Dante è un appello a pensare in grande al destino della Chiesa”.



Dal sito Vatican News

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