L’orsolina fondatrice di Casa Rut a Caserta e di Casa Magnificat a Roma, racconta lo sguardo compassionevole della Chiesa, indicato dal Pontefice sin dal 2013, “che supera ideologie, differenze, e che vede l’infinita dignità che c’è in ogni persona, di qualsiasi etnia, razza, religione e provenienza”
Francesca Sabatinelli – Città del Vaticano
Tra i grandi lasciti di Papa Francesco c’è quello di aver chiesto ai fedeli di “andare e portare vita nuova, di vivere con pienezza la misericordia, per trovare la capacità di guardare la vita degli altri, di uscire dal proprio io, dalle proprie paure e dalle proprie ferite”. Perché “il mondo ha bisogno di questa salvezza e di questa nuova umanità, ha bisogno di dare vita, attraverso una Chiesa che si faccia ospedale da campo”. Suor Rita Giaretta, orsolina, fondatrice di Casa Rut a Caserta e di Casa Magnificat a Roma, entrambi luoghi di accoglienza di donne vittime di violenza, abusi e tratta, è tra i testimoni eccellenti di quello che fu il mandato che Papa Francesco affidò alla Chiesa nel 2013: quello di “curare le ferite” e poter “riscaldare il cuore dei fedeli”, facendosi carico delle sofferenze fisiche e psicologiche delle persone, esprimendo vicinanza e prossimità. La visione di Bergoglio fu quella della “Chiesa come un ospedale da campo dopo una battaglia”. Una missione che L’Osservatore Romano raccolse nel 2020, quando iniziò, settimanalmente, a pubblicare la rubrica intitolata proprio “Ospedale da Campo”, dedicata a storie di misericordia e di coraggio provenienti da ogni parte del mondo.
Una nuova umanità
Storie di dolore, di lacrime, ma anche di fiducia e rinascita. Che sono le storie delle persone che sabato scorso, 26 aprile, accoglievano il feretro di Papa Francesco a Santa Maria Maggiore. Erano lì, con una rosa bianca tra le dita, “donne e uomini che portavano nel cuore, nel corpo e nella vita, l’esperienza della ferite, ma che si sentivano allo stesso tempo accuditi da chi si prende cura di loro”, e suor Rita era tra loro, davanti alla Basilica, guardando quei volti e pensando all’incarico del Papa di “andare con fiducia, di camminare e di portare nel mondo salvezza e una nuova umanità”, senza fermarsi e senza piangere. Questo è “il suo grande messaggio di cui tutti abbiamo fame e sete, perché abbiamo bisogno di questa vita in pienezza e di imparare un nuovo sogno di fraternità e di amicizia sociale”.
Le ferite, chi le vive e chi le cura
Quel 26 aprile, sul sagrato e sulle scale di Santa Maria Maggiore, non si è vissuta la diversità tra santi e peccatori, perché il messaggio di Francesco, e il suo insegnamento a “vivere il Vangelo, ospedale da campo per chi vuole continuare a dare vita”, unisce tutti. “Si tratta di una immagine potente, che tocca profondamente sia chi vive le ferite, sia chi se ne prende cura”. È come per le piaghe delle ragazze che suor Rita e le sue consorelle accolgono e proteggono, “ragazze vittime di disumanità, che portano nella loro carne lacerazioni grandi e drammatiche”, sulle quali si possa lo sguardo di chi è chiamato a curare, “ancor prima di sapere chi sei, da dove vieni e per quale motivo”. E questa è la vicinanza raccomandata da Francesco, fatta di prossimità, di misericordia e di carezze verso chi vive “vergogna, umiliazione, annullamento della dignità. Verso donne dai corpi massacrati, che vengono considerate merce, che devono rispondere a chi per strada chiede ‘tu quanto costi?’ ”.
Lo sguardo compassionevole
L’immagine donata dal Papa ha dato energia e spinta per portare avanti l’impegno accanto a queste donne, “trovando forme di delicatezza, di umanità, di tenerezza, di abbracci, di sguardi, di silenzi, per liberare e per guarire”. Tante volte, la società di oggi, offre più palliativi che cure, per questo l’immagine dell’ospedale da campo va continuamente ripresentata, è una fonte alla quale occorre sempre attingere, “che fa fatica a farsi strada – aggiunge suor Rita – perché per guarire da queste ferite occorre tempo, occorre umanità, occorre uno sguardo diverso, perché tutto quello che sanguina, tutto quello che ‘spuzza’ come avrebbe detto Francesco, è scomodo e va tolto dalla nostra visione”. Nonostante la morte, di Francesco restano la potenza della parola e la forza di spirito, “che oggi vanno vissute ancor di più, per affrontare battaglie e ferite che rischiano di essere ancor più profonde e che chiedono maggiore passione, maggiore presenza evangelica, maggiore umanità”. Perché si risponda al mandato di essere ospedale da campo occorre uno “sguardo compassionevole, che superi ideologie, differenze, e che veda l’infinita dignità che c’è in ogni persona, di qualsiasi etnia, razza, religione e provenienza”. Ogni parrocchia, ogni comunità, ogni istituzione, è l’appello di suor Giaretta, “dovrebbe partire da questa idea di ospedale da campo, che in sé raccoglie misericordia, compassione, tenerezza, cura, vicinanza e prossimità”.