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Viktoriia Roshchyna la storia della giornalista torturata e uccisa


Un corpo restituito senza nome, mutilato, irriconoscibile. Un’etichetta burocratica, “NM SPAS 757”, a nascondere quello che era invece il simbolo di una guerra che si combatte anche contro chi cerca la verità. Così è tornata in Ucraina Viktoriia Roshchyna, la giovane giornalista scomparsa nell’estate 2023 mentre indagava sulle torture nei territori occupati dai russi. Il suo destino, svelato solo dalla tenacia di colleghi e familiari, è diventato l’emblema della brutalità subita da chi osa raccontare ciò che non dovrebbe essere visto.

La scomparsa e la missione di Viktoriia

Viktoriia Roshchyna, 27 anni, reporter per testate come Ukrainska Pravda e Hromadske, era nota tra i colleghi per la sua determinazione e per la volontà di andare dove nessuno aveva il coraggio di spingersi. Era già stata arrestata una prima volta dall’FSB russo nel marzo 2022, ma era tornata a casa solo dopo aver registrato un video di “confessione” forzata. Nonostante le raccomandazioni dei colleghi e del padre, veterano di guerra, Viktoriia aveva deciso di tornare nei territori occupati, convinta che fosse suo dovere dare voce agli ucraini rimasti sotto il controllo russo.

Nel luglio 2023, parte per l’ultima missione. Attraversa Polonia, Lituania, Lettonia e infine entra in Russia, passando il confine a Ludonka. Affitta un appartamento a Enerhodar, nei pressi della centrale nucleare di Zaporizhzhia, e inizia a raccogliere testimonianze. Usa più telefoni, invia file che si autodistruggono, prende ogni precauzione possibile. Ma il 3 agosto, ogni traccia di lei si perde: il suo telefono si spegne e il padre, non riuscendo più a contattarla, lancia l’allarme.


© canale YouTube Viktoriia Project


La prigionia: torture, silenzi e bugie

Viktoriia viene portata a Melitopol, dove secondo i testimoni subisce torture nel cosiddetto “garage”, centro di smistamento per prigionieri. Le violenze sono sistematiche: scosse elettriche, botte, privazione di cibo. Poi il trasferimento nel carcere Sizo-2 di Taganrog, nel sud della Russia, tristemente noto per le condizioni disumane a cui sono sottoposti sia civili che soldati ucraini. Qui i detenuti vengono costretti a posizioni dolorose, il cibo è razionato, le torture continuano. Viktoriia smette di mangiare, perde peso fino a scendere a 30 chili. Una compagna di cella ricorda i suoi occhi terrorizzati, la mente ormai spezzata dall’orrore.

Solo nell’aprile 2024, dopo mesi di silenzio, le autorità russe e la Croce Rossa Internazionale confermano l’arresto di Viktoriia. Il padre riesce a parlarle al telefono per pochi minuti, cercando di convincerla a nutrirsi. Poi, il 10 ottobre, arriva la comunicazione ufficiale: Viktoriia è morta in carcere. Le autorità russe negano perfino che sia mai stata detenuta a Taganrog.

Il ritorno del corpo e la verità sulle torture

Il 14 febbraio 2025, durante uno scambio di corpi tra Russia e Ucraina, tra le salme c’è un cadavere etichettato come “maschio non identificato”. Gli esami forensi ucraini stabiliscono che si tratta di una donna, e il test del DNA conferma con il 99% di probabilità che è Viktoriia Roshchyna. Il corpo è mummificato, quasi irriconoscibile, ma i segni delle torture sono evidenti: costole rotte, ferite al collo, abrasioni e contusioni su tutto il corpo, possibili tracce di scosse elettriche ai piedi. Mancano diversi organi interni – cervello, occhi, parte della trachea – probabilmente rimossi per nascondere le cause della morte, forse strangolamento o soffocamento.

Secondo Yuriy Belousov, capo dell’unità crimini di guerra della procura generale ucraina, le lesioni sono state inflitte mentre Viktoriia era ancora in vita. Il padre, però, non si rassegna e chiede ulteriori analisi, incapace di accettare che quel corpo martoriato sia davvero quello della figlia.

L’inchiesta internazionale e la richiesta di giustizia

  

La storia di Viktoriia Roshchyna è stata ricostruita da un consorzio internazionale di giornali – tra cui Washington Post, The Guardian, Ukrainska Pravda, Le Monde, Der Spiegel – coordinato da Forbidden Stories, con il progetto “Viktoriia: Storia di prigionia e torture subite dalla giornalista Roshchyna e da migliaia di ucraini imprigionati dalla Russia”. L’indagine ha portato alla luce non solo il calvario della giovane reporter, ma anche quello di migliaia di civili ucraini detenuti illegalmente in Russia, spesso senza accuse formali e senza possibilità di comunicare con l’esterno.

Le autorità ucraine hanno chiesto una risposta forte e immediata dalla comunità internazionale. «La questione degli ostaggi civili rapiti e trattenuti dalla Russia richiede una maggiore attenzione internazionale ed una risposta immediata e forte», ha dichiarato il portavoce del ministero degli Esteri ucraino, Georgiy Tykhy.

Il ritorno dei corpi: la testimonianza del Kyiv Independent

Il caso di Viktoriia si inserisce in un contesto più ampio di restituzione di corpi di cittadini ucraini morti in prigionia russa. Secondo un’inchiesta del Kyiv Independent, l’Ucraina ha finora recuperato i corpi di 757 soldati caduti, spesso in condizioni simili a quelle di Roshchyna: mutilati, irriconoscibili, privi di organi. L’articolo racconta come il processo di identificazione sia lungo e doloroso, e come molte famiglie attendano ancora notizie dei propri cari.

«I corpi restituiti dalla Russia spesso arrivano in condizioni tali da rendere difficile, se non impossibile, l’identificazione. In molti casi mancano documenti, effetti personali o addirittura parti del corpo. Le autorità ucraine fanno affidamento su test del DNA e analisi forensi per restituire un nome e una storia a chi è stato privato di tutto, persino della dignità nella morte». Il lavoro del Kyiv Independent sottolinea come la restituzione dei corpi sia solo il primo passo verso la giustizia e la memoria. Ogni corpo, ogni nome restituito, è una testimonianza delle violazioni dei diritti umani e della necessità di un’indagine internazionale sulle condizioni dei prigionieri ucraini in Russia.

Un simbolo e una domanda aperta

La storia di Viktoriia Roshchyna non è solo quella di una giovane giornalista coraggiosa, ma il paradigma di una guerra che si combatte anche contro l’informazione e la verità. Il suo sacrificio, reso pubblico grazie all’inchiesta internazionale e alla determinazione dei colleghi, pone una domanda alla coscienza europea e mondiale: quanto ancora dovranno soffrire i civili e i reporter ucraini prima che la comunità internazionale intervenga con decisione?





Dal sito Famiglia Cristiana

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