Non è l’uomo per il sabato ma il sabato per l’uomo. Vale anche quando si parla di studenti, famiglie e professori? Ogni tanto si torna a parlare di settimana corta a scuola. Quest’anno il tema è particolarmente sentito perché – in un clima da economia di guerra – il risparmio che se ne otterrebbe in termini di riscaldamento, luce e trasporti varrebbe come contributo alla grave crisi energetica che stiamo attraversando a causa dell’invasione ucraina. Ieri il ministro della Pubblica istruzione Patrizio Bianchi si è detto contrario, ma per una questione di principio. Nel senso che non è giusto chiedere ulteriori sacrifici alla scuola, anche in termini di risparmio energetico. Perché la scuola dovrebbe essere la prima a pagare? Sul piano dei sacrifici insomma non si può partire da allievi e docenti, proprio perché allievi e docenti hanno già dato.
Ma il punto è un altro: siamo sicuri che la settimana corta sia un sacrificio? Siamo certi che non si potrebbe fare, come si suol dire, di necessità virtù? Proviamo a vedere in linea di massima costi e benefici, con una premessa importante, che la maggior parte delle scuole elementari e medie sta attuando già da tempo la settimana corta. Scolari e allievi delle scuole di primo grado infatti il sabato a scuola non ci vanno. Per gli istituti di secondo grado invece la scelta è molto soggettiva e viene affidata all’autonomia scolastica, anche se la maggior parte dei licei e delle altre realtà educative l’orario è steso su sei giorni, da lunedì a sabato. L’esperienza però ci dice che chi ha sperimentato la settimana corta difficilmente torna indietro, e questo dovrebbe già dirci qualcosa. Ma quali sono le difficoltà nel sopprimere il sabato? La prima è che è necessario concentrare tutta l’organizzazione scolastica su cinque giorni anziché sei, con difficoltà tecniche non da poco: pensiamo al gran ballo del corpo docenti che si alterna su un lasso di tempo più breve. Bisogna ridisegnare gli spazi, perché occorrono più persone in meno tempo e servono più classi.
Naturalmente l’orario quotidiano si allungherebbe di almeno un’ora: e in alcuni istituti in cui vige la settimana corta il suono della campanella arriva alle cinque del pomeriggio. Giorni dunque più pesanti per professori e soprattutto studenti. Ne risente il loro benessere psicofisico? L’orario di un liceo non è certo lo stesso di una scuola media inferiore. Possono reggere i ragazzi a una pressione didattica non indifferente? La loro capacità di assimilazione e apprendimento insomma potrebbe risentirne, se dopo un’ora di matematica, due di latino, una di filosofia, due di ginnastica, se ne vedono arrivare anche una di inglese . E i compiti a casa? Anche questa è una “vexata quaestio”: alleggerire, in caso di settimana corta, il lavoro extrascolastico o mantenerlo intatto, costringendo i ragazzi a serate leopardiane di studio “matto e disperatissimo”? I pedagogisti di solito sono piuttosto scettici poiché la scuola è un’esperienza importante proprio perchè quasi quotidiana. Dunque ridurre i giorni di permanenza tra i banchi può limitare l’affezione all’istituzione scolastica, e dunque anche la fiducia, che si nutre anche di continuità. D’altro canto solo la domenica, magari con una caterva di compiti, per riprendersi, non basta. Il dibattito è aperto. Finora nessuno è mai riuscito a dimostrare né l’una né l’altra tesi.
Sul piano dei vantaggi non c’è bisogno di essere un pedagogista o un sociologo. Il weekend libero è una gran comodità per le famiglie (tranne per i genitori che il sabato e la domenica lavorano, come nei supermercati) e gli studenti se ne avvantaggerebbero sul piano del benessere psicofisico. E naturalmente le spese di energia trasporti e luce si accorcerebbero di un sesto, un risparmio non da poco se moltiplicato per i 7.041 istituti di secondo grado esistenti in Italia. Anche se molti presidi obiettano che la maggior parte degli impianti non consente un efficientamento energetico quando si spengono e riaccendono i riscaldamenti. In parole povere lo spegnimento del sabato e la riaccensione del lunedì sarebbe più costosa che mantenere il riscaldamento a temperatura costante. Come si vede, il ministro non vuole, ma il dibattito è aperto e l’ultima parola ce l’hanno i presidi.