Sulla festa del Primo maggio festa del lavoro Piero Martello, già presidente del Tribunale del lavoro di Milano e direttore della prestigiosa rivista giuslavoristica “Lavoro Diritti Europa” fa una precisazione importante: «È più corretto parlare di festa dei lavoratori. Non è una questione puramente lessicale. Il senso originario della ricorrenza è quello di celebrare le battaglie e i diritti conquistati da chi lavora, non il lavoro in sé. Il lavoro, infatti, è anche fatica, rischio, sfruttamento. La festa nasce per dare voce e riconoscimento ai lavoratori, non per esaltare l’attività produttiva in astratto».
Che cosa si festeggiava, allora, alle origini di questa ricorrenza?
«Negli Stati Uniti, dove tutto è cominciato, venne varata una legge che fissava per la prima volta un orario di lavoro giornaliero. All’epoca si lavorava dal buio all’alba, anche il sabato. Ottenere la giornata lavorativa di otto ore era un traguardo enorme, tanto che i lavoratori marciavano sotto uno slogan molto chiaro detto 8-8-8: “8 ore di lavoro, 8 di riposo, 8 di svago o famiglia”. A proposito dell’orario di lavoro non c’erano limiti si lavorava tutti i giorni. Erano questi i regimi lavorativi di quell’epoca. Per non parlare di come venivano trattati i lavoratori. Era l’epoca in cui le donne e bambini lavoravano anche in miniera. Le donne venivano pagate metà degli uomini e i bambini metà delle donne. Ecco cosa festeggiavano: la conquista di una vita più umana.»
E oggi, che senso ha questa festa?
«Ha ancora un valore fondamentale. Serve a ricordare quanto sia stato lungo e difficile il cammino del diritto del lavoro. Fare sindacato, un tempo, era considerato un reato. Il Codice Zanardelli perseguiva chi organizzava iniziative sindacali. Oggi invece il sindacato è pienamente riconosciuto e deve essere rafforzato. La vera sfida è trovare forme di partecipazione dei lavoratori alla vita delle imprese. L’articolo 1 della nostra Costituzione – “L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro” – non è solo retorica: riconosce al lavoro una funzione di cittadinanza attiva, non solo una retribuzione.»
Durante il fascismo la festa del lavoro fu cancellata.
«Sì, fu abolita. Il regime fascista provò a sostituirla con un’altra ricorrenza, il 21 aprile, il Natale di Roma, svuotandola del suo significato sociale. È anche un tradimento del passato sindacale dello stesso Mussolini, in fondo. Solo nel 1946, con la Repubblica, la festa del Primo Maggio fu finalmente reintrodotta.»
A proposito di evoluzione dei diritti: qual è stato il ruolo dello Statuto dei lavoratori? Ha certamente costituito una pietra miliare …
«Non parlerei di pietra miliare, il percorso della storia dei diritti dei lavoratori è fatto da passi successivi, da lastre apposte su questo percorso. Ma certamente ha segnato il cambiamento di un’epoca, fa parte di un cammino cominciato nel 1966, quando fu introdotta la prima legge che richiedeva il giustificato motivo per i licenziamenti. L’idea che l’imprenditore dovesse giustificare il licenziamento di un dipendente era un fatto nuovo. Le leggi successive lo hanno mantenuto. Da qui l’importanza dello Statuto che ha introdotto il principio della reintegrazione del lavoratore in caso di ingiustificato motivo. Una norma attenuata in buona misura dal Job Act di Matteo Renzi (è una delle norme sottoposte al referendum). Lo Statuto è un punto importante. Cambia la logica sottostante. Non si limita a parlare di retribuzione ma anche di presenza del sindacato nel posto di lavoro, dei diritti del sindacato e dei sindacalisti, che prima non avevano l’assemblea, le rappresentanze aziendali eccetera».
Un momento fondamentale.
«È stato un cambiamento di logica e approccio. Non ha regolato solo il licenziamento. Ha favorito la legislazione di sostegno (come la presenza e operatività di sindacato in azienda). Si pensi che in passato nella Fiat di Valletta c’erano i reparti-confino, dove venivano mandati i sindacalisti. C’erano anche i licenziamenti “ad nutum”. Con lo Statuto, approvato nel 1970, si afferma il principio della reintegrazione e si introduce il dovere per il datore di lavoro di motivare i licenziamenti. È un punto di svolta, che ha ispirato anche tutta la legislazione successiva».
Eppure, con il Jobs Act, molte di quelle tutele sono state ridotte.
«Il Jobs Act nasce da una logica puramente economica: il posto di lavoro deve convenire. Una logica che ha ridimensionato il principio della reintegrazione. Ma oggi, uno dei referendum proposti punta proprio a ripristinare queste tutele, ampliando i casi di reintegro dopo un licenziamento illegittimo. È un tentativo di riportare equilibrio nel rapporto tra lavoratore e datore.»
Lei ha parlato anche del problema del potere contrattuale asimmetrico. Che cosa intende?
«Nel mondo del lavoro, le due parti – datore e lavoratore – non partono dallo stesso livello. L’economia globalizzata ha accentuato questo squilibrio. È necessario ridurre questa asimmetria e costruire rapporti basati sul rispetto reciproco, anche attraverso il rafforzamento del sindacato e delle sue prerogative».
A proposito di tutele, lei sulla sua rivista “lavoro Diritti Europa” sostiene attraverso articoli e approfondimenti anche il salario minimo legale. Secondo Confindustria il salario minimo è un falso problema, perché tutti i contratti che fanno capo a questa associaizione superano il minimo garantito.
«I contratti di Confindustria, per quanto superiori al minimo garantito, non coprono l’intero mondo del lavoro. C’è una vastissima area di lavoro nero, caporalato e piccole imprese non associate in cui la retribuzione non è dignitosa. Il salario minimo serve proprio a garantire una soglia di dignità anche a chi lavora fuori dal perimetro della contrattazione collettiva. Tutti i Paesi avanzati lo hanno: l’Italia è un’eccezione, e non positiva.»
Il caporalato è ancora un’emergenza?
«Lo è, e non solo al Sud. Al Nord è diffusissimo nella logistica, come hanno dimostrato le inchieste della procura di Milano, con il dottor Paolo Storari in prima linea nell’invbestigare e combattere questa piaga. Si tratta di forme di sfruttamento che rasentano lo schiavismo, come quello dei lavoratori cinesi costretti a vivere, mangiare e dormire nei capannoni. È una realtà scandalosa, spesso invisibile.»
Quali sono oggi le principali sfide nel mondo del lavoro in Italia?
«Quelle che ha segnalato anche il presidente Mattarella e che Eurostat ha ribadito proprio ieri: bisogna garantire stipendi accettabili e dignitosi, superando la tendenza al calo sostanziale del potere d’acquisto. Un’altra urgenza è eliminare il lavoro povero e dare attenzione vera agli infortuni: questo stillicidio di morti sul lavoro è intollerabile. È necessario agire sulla prevenzione. E poi c’è il tema della precarietà, in tutte le sue forme: dal caporalato, che resta una delle espressioni più gravi e diffuse, fino ai contratti a termine usati in modo distorto.»
Il pensiero di papa Francesco sul lavoro è stato molto presente nel dibattito pubblico. Come lo interpreta?
«Papa Francesco ha avuto il grande merito di riportare con forza al centro la dignità del lavoratore, nel solco della dottrina sociale della Chiesa. Ma ha anche compiuto un’evoluzione del linguaggio: ha parlato in modo semplice, diretto, evangelico, senza filtri, senza barocchismi ecclesiali. Questo ha permesso alla gente di capirlo e di sentirsi capita. Basta guardare la partecipazione emotiva ai suoi funerali per comprendere quanto fosse vicino al popolo».
Molti, però, lo hanno etichettato come “di sinistra”, addirittura “comunista”.
«È un’accusa ridicola, che dimostra ignoranza. Chi dice una cosa del genere non ha mai letto davvero il Vangelo né la dottrina sociale della Chiesa. I principi che il Papa ha riaffermato, come quelli espressi nella parabola degli operai dell’ultima ora, sono profondamente evangelici. È paradossale che oggi venga elogiato anche da chi ieri lo accusava: è l’ipocrisia di chi si scandalizza di fronte alla coerenza cristiana.»
Parliamo dei referendum sul lavoro. Lei li sostiene?
«Assolutamente sì. Sono importanti perché incidono in profondità sull’organizzazione del lavoro. Uno dei quesiti più significativi riguarda la sicurezza: prevede una responsabilità condivisa tra committente e appaltatore. In questo modo si responsabilizza chi affida il lavoro: non potrà più limitarsi a scegliere il preventivo più basso, dovrà valutare seriamente le condizioni di sicurezza offerte dall’appaltatore, controllare i macchinari, verificare se i lavoratori sono messi in regola.»
Un altro referendum tocca il reintegro nel posto di lavoro. Cosa cambierebbe?
«Negli ultimi anni le norme hanno limitato i casi in cui è possibile il reintegro del lavoratore licenziato ingiustamente. Il referendum andrebbe a ripristinare una tutela più ampia, riportando equilibrio in una disciplina che si è piegata troppo agli interessi datoriali.»
Un appello finale?
«Andare a votare. Non è una questione di partiti, ma una forma alta di partecipazione democratica. Riguarda tutti, non solo i lavoratori: è in gioco la qualità del nostro tessuto sociale.»