Uno sguardo complessivo alla sentenza del procedimento giudiziario sulla gestione dei fondi della Santa Sede
Andrea Tornielli
Tra le tante considerazioni che possono essere fatte al termine della lettura delle lunghe e complesse motivazioni della sentenza sul processo riguardante principalmente la vicenda della compravendita del palazzo londinese di Sloane Avenue, ne proponiamo due. La prima riguarda la conduzione del processo che si è celebrato per 86 udienze nell’Aula polifunzionale dei Musei Vaticani: nonostante le accuse e le dichiarazioni mediatiche relative ai diritti della difesa che non sarebbero stati garantiti, è evidente l’esatto contrario. La decisione del Tribunale guidato dal presidente Giuseppe Pignatone non ha ricalcato le richieste del Promotore di Giustizia, ha riqualificato i reati, ha assolto alcuni degli imputati per ipotesi di reato. Soprattutto, ha messo al centro il contraddittorio nel dibattimento, ha dato amplissima facoltà di intervento alle ben strutturate difese degli imputati, ha esaminato fatti e documenti senza tralasciare nulla.
Anche se il Vaticano – come la Francia e a differenza dell’Italia – mantiene un rito inquisitorio diverso da quello accusatorio e dunque nella fase istruttoria non prevede una “parità delle armi” tra accusa e difesa, ben diversa è la fase dibattimentale dove il principio è stato pienamente garantito ed è stato celebrato un giusto processo, con il diritto di difesa e la presunzione di innocenza. Principi peraltro ben definiti e previsti dalle norme vigenti. È interessante notare che, ripetutamente, le motivazioni fanno riferimento ad alcune sentenze che hanno fatto scuola nella giurisprudenza italiana.
La seconda considerazione riguarda l’uso dei soldi e la necessità di rendere conto. Nel documento finale approvato dal Sinodo sulla sinodalità conclusosi la scorsa settimana, ci sono paragrafi focalizzati sul tema della trasparenza, indicando come conseguenza del clericalismo l’assunto implicito «che coloro che hanno autorità nella Chiesa non debbano rendere conto delle loro azioni e delle loro decisioni». La triste storia dell’azzardato investimento nel fondo di Mincione di ben 200 milioni, cifra enorme per un’operazione che non aveva precedenti – a prescindere dalle responsabilità dei vari soggetti così come sono state accertate dal Tribunale – dice di una modalità di uso del denaro che non prevedeva di «rendere conto». E dice anche di quanto deleterio sia, per una realtà come la Chiesa, assumere categorie e comportamenti mutuandoli dalla finanza speculativa. Sono atteggiamenti che mettono tra parentesi la natura della Chiesa e la sua peculiarità. Atteggiamenti che mettono da parte, o fingono di non conoscere, quella saggezza del “buon padre di famiglia” esplicitamente citata dalle normative vigenti e tanto più necessaria quanto si amministrano i beni che servono alla missione del Successore di Pietro.
Diversificare gli investimenti, considerare il rischio, stare alla larga dai favoritismi e soprattutto evitare di trasformare i soldi che si maneggiano in uno strumento di potere personale sono insegnamenti da trarre dalla vicenda di Sloane Avenue.
È positivo che all’interno dello stesso sistema della Santa Sede si siano sviluppati gli “anticorpi” che hanno permesso di portare alla luce i fatti oggetto del processo, nella speranza che non si ripetano più.