Perché abolire il reddito di cittadinanza non combatte la povertà

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«Anzitutto, devo dire che in questa strana campagna elettorale ho visto pochi programmi con una vera  riflessione, profonda, alle spalle. La maggior parte di questi mi sembra quasi scritta in una notte, come si  fanno le liste della spesa. Poi è chiaro che in pochi si immaginavano di affrontare una campagna elettorale  estiva, però è anche vero che le elezioni ci sarebbero state comunque tra sei mesi, e i partiti  cosa stavano aspettando?». Emiliano Manfredonia, presidente nazionale delle Acli, ha studiatoa fondo i  programmi di tutti gli schieramenti. La sua opinione non è molto ottimista.

Qual è il suo parere sul reddito  di cittadinanza?

«Il Reddito di cittadinanza è servito sicuramente a contrastare la povertà, specialmente  alla luce dell’emergenza pandemica che abbiamo vissuto e presenta potenzialità inespresse ma anche criticità. Così come è stato pensato, rischia di rimanere un palliativo non efficace nel tempo, specialmente  se non si presterà maggiore attenzione all’inserimento nel mondo del lavoro e all’inclusione  nella società. La povertà non è una colpa, è un problema spesso più vasto che va affrontato in maniera multidisciplinare, potenziando le attività di accompagnamento dei comuni a cui si deve unire sempre di più il supporto del Terzo settore».

Quale proposta nella selva dei programmi presentata dai partiti l’ha più  colpita in positivo?

«Sono interessanti  tutte le proposte che vanno verso la riduzione del costo del lavoro perché significa porre attenzione alla  dignità dei lavoratori. Mi pare anche interessante la proposta del Pd sul Salario minimo, un modo per  contrastare il lavoro povero. Secondo un report del CNEL (Consiglio nazionale economia e lavoro), a  giugno 2021 si contavano addirittura 985 contratti nazionali vigenti di cui più della metà scaduti da anni  perché quasi il 90% dei dipendenti fa capo a non più di 60 contratti. E succede, dunque, che nel  medesimo settore, esistono dipendenti di serie B che, a fronte delle medesime mansioni, guadagnano 2/3  dello stipendio di chi è coperto dal CCNL principale. In quest’ottica, il Partito Democratico, nel  programma, prevede una “legge per riconoscere il valore legale erga omnes del trattamento economico  complessivo dei contratti collettivi firmati dalle organizzazioni maggiormente rappresentative”. Certo, non  indicando le modalità più opportune da perseguire per raggiungere l’obiettivo, e anche questa proposta rischia di rimanere una promessa irrealizzabile».

Quale invece contiene le maggiori criticità?

Sono stupito  che in tema internazionale, in riferimento alla guerra e a quale via per la pace sia possibile non ci sia traccia nei programmi elettorali, eppure questo è uno dei motivi di maggior rischio per l’economia del continente e quindi anche del nostro Paese».

Come giudica le proposte fiscali degli schieramenti? Che ne pensa della flat tax, vecchio cavallo di battaglia del Centrodestra?

«La flat tax, come sappiamo,  rappresenta una delle proposte bandiera del Centrodestra, ma presenta più ordini di problemi. Anzitutto, molto pragmaticamente, quello delle coperture: è stato stimato che aldilà della contraddittoria scelta fra  l’aliquota fissa al 15 o al 23%, una misura del genere costerebbe poco meno di 60 miliardi di euro. Davvero difficile che improvvisamente il “pagare meno pagare tutti”, principio già di per sé discutibile, sia la  principale fonte di copertura. La verità è che la nostra Costituzione, all’art. 53, fissa molto chiaramente  le regole per la redistribuzione della ricchezza, facendone una questione di giustizia ed equità sociale nei  confronti dei più deboli. Oggi i 40 miliardari italiani più ricchi posseggono l’equivalente della ricchezza  netta del 30% degli italiani più poveri (che ammontano a 18 milioni di persone adulte), ed è giusto che chi ha di più paghi più tasse a favore dei più deboli e dei più indigenti».

 

 

 

 

 

 





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