C’è un’ingiustizia che va direttamente al cuore delle vittime nella sentenza della Corte di Cassazione francese che ha detto definitivamente no all’estradizione di dieci terroristi rossi italiani, colpevoli di gravissimi delitti negli anni di piombo, rifugiatisi Oltralpe da anni. Un’ingiustizia che ha il vago sentore della tracotanza. I giudici supremi hanno confermato le motivazioni dei magistrati della Corte d’Appello. Quest’ultimi avevano sostenuto che molti degli arrestati erano stati giudicati in Italia in contumacia, e dunque non avrebbero avuto la possibilità di difendersi in un nuovo processo poiché la legge italiana non offre questa garanzia. Inoltre si faceva valere il fatto che i “rifugiati” vivevano da 25-40 anni in Francia, dove si sono costruiti una situazione famigliare stabile, sono inseriti professionalmente e socialmente rompendo ogni legame con l’Italia e quindi la loro estradizione avrebbe provocato un danno sproporzionato al loro diritto a una vita privata e familiare. La stessa vita privata e familiare che avevano tolto – uccidendoli o menomandoli – alle loro vittime. Si tratta di una sconfitta per le autorità italiane, che avevano presentato la richiesta di estradizione, e anche (almeno apparentemente) per il governo francese, che l’aveva accolta e che il 27 aprile 2021 aveva arrestato i dieci ex militanti della lotta armata. A rileggere le storie di quei condannati italiani fuggiti all’estero si ritrovano, in una comune ferocia, vicende diverse: tuttavia le corti parigine hanno giudicato tutto in blocco, rendendo già per questo il verdetto scadente, contravvenendo così a un principio della giustizia universale, quello che recita che «la responsabilità penale è personale». Suona peraltro offensivo il riferimento della corte francese (oltretutto non indipendente come quella italiana) all’equo processo cui avrebbero diritto i terroristi, gettando una grave accusa al sistema giudiziario italiano. Come se un tribunale italiano non fosse in grado di giudicare un persona colpevole di un omicidio in sua assenza, come se non bastassero vittime, prove, riscontri, indagini, inchieste, testimonianze offerte da una procura e da un tribunale italiani.
Quella dei terroristi fuggiti all’estero è una vicenda storica che non fa onore alla Francia. Accolti come reduci nei salotti parigini, sono stati coccolati, corteggiati come maitre-à-penser, trattati come eroi, nascosti alla bisogna per non turbare la loro “privacy”, quasi non si fosse trattato di gente che ha ucciso, ferito, creato vuoti di sofferenza incolmabili in tante famiglie. Le loro vittime erano servitori dello Stato, padri di famiglia, martiri innocenti di una guerra assurda, dichiarata unilateralmente di cui i terroristi si sono pentiti spesso troppo tardi.
La Corte di Cassazione francese, come quella d’Appello, rovescia il senso della giustizia. In nome del diritto a vivere una vita serena dei colpevoli si dimentica quella che non hanno vissuto per 40 anni le famiglie delle vittime. La giustizia riparatrice si chiama così proprio perché vuol riparare con il carcere e la rieducazione del condannato la ferita del carcere psichico cui sono sottoposti i parenti delle vittime. Con la differenza che il carcere fisico dei primi (a meno non si tratti di un «fine pena mai») ha un termine temporale. Quello dei secondi non finisce mai.
Alla base di questa decisione ci sarebbe la nota “dottrina Mitterrand”, che peraltro escludeva i delitti di violenza inaccettabile. Ma qui ci pare più un eccesso di superbia, e forse un gioco delle parti tra governo francese, che aveva appoggiato le richieste italiane, e i magistrati francesi.