Pubblichiamo la sintesi della terza meditazione del predicatore della Casa Pontificia che sta guidando gli Esercizi Spirituali di Quaresima in Aula Paolo VI. Padre Pasolini si sofferma sul continuo tentativo dell’uomo di coprire le proprie debolezze, senza affrontare il vuoto profondo che lo abita. Sottolinea che la morte interiore non è la fine perché Dio la guarda non come ad una sconfitta ma come al punto di partenza per una nuova esistenza
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Perché fatichiamo a riconoscere che la vita eterna è già iniziata? La Bibbia suggerisce che l’essere umano, fin dal principio, si scopre insensibile e ostile all’azione di Dio. I profeti dell’Antico Testamento denunciavano l’incapacità del popolo di accorgersi delle “cose nuove” che Dio compie, mentre Gesù stesso, constatando l’incomprensione dei suoi ascoltatori, parlava in parabole. Questo non per semplificare il suo messaggio, ma per evidenziare la durezza del cuore umano, chiuso alla possibilità di una vita piena.
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Il Nuovo Testamento descrive questa condizione con un’affermazione paradossale: siamo già morti, ma non ce ne accorgiamo. La morte, infatti, non è solo l’evento finale della vita (morte biologica), ma anche una realtà che sperimentiamo già ora, attraverso una chiusura in noi stessi che ci impedisce di avvertire la vita come qualcosa di eterno che Dio vuole donarci. La Genesi racconta questa perdita di sensibilità attraverso ciò che la tradizione ha definito “peccato originale”: l’uomo, anziché accogliere la vita come dono, cerca di controllarla, oltrepassando il limite imposto da Dio. Il risultato non è l’autonomia promessa dal serpente, ma un senso di vergogna e di smarrimento.
Questa prima “morte interiore” si manifesta nel nostro continuo tentativo di coprire le fragilità con immagini, ruoli e successi, senza affrontare il vuoto profondo che ci abita. Eppure, nella Bibbia, Dio non sembra allarmato da questa condizione: la sua prima reazione è cercare l’uomo, domandandogli “Dove sei?” (Gen 3,9). Questo indica che la morte interiore non è la fine, ma il punto da cui può iniziare un cammino di salvezza.
Anche nel dramma di Caino e Abele emerge questa logica: Dio non interviene per prevenire il fratricidio, ma protegge Caino dal suo stesso senso di colpa. Questo mostra che la nostra “prima morte” non è un destino ineluttabile, ma un’opportunità per riscoprire la vita eterna come una realtà presente, non solo futura. Gesù stesso invita a leggere le tragedie della vita come occasioni di conversione, non come segni di condanna (Lc 13,4-5).
Dio guarda alla nostra morte interiore non come a una sconfitta, ma come al punto di partenza per una nuova esistenza. Il vero ostacolo alla vita eterna non è la morte biologica, ma la nostra incapacità di riconoscere che siamo già immersi in una realtà che va oltre il tempo, se solo scegliamo di viverla con fiducia e apertura a Dio.