Isabelle Veil Perona, figlia di Jean, primogenito di Simone Veil.
«Se mi impegno in maniera così totale per un’Europa unita è perché ho imparato dal mio passato e penso al futuro della Francia. Ho sofferto troppo personalmente, nella mente e nel corpo, per accettare che i miei figli e i miei nipoti un giorno possano soffrire quello che io e tanti altri abbiamo sofferto… L’Europa è pace». In queste parole, pronunciate con appassionata convinzione in uno dei suoi discorsi davanti al Parlamento europeo, c’è tutta la l’eredità di Simone Veil, sopravvissuta ad Auschwitz, prima presidente donna del Consiglio superiore della magistratura in Francia, prima donna presidente del Parlamento europeo: un gigante del Novecento o, come recita il bellissimo film di Olivier Dahan che finalmente arriva in Italia, Simone Veil. La donna del secolo (nelle sale il 27 gennaio per il Giorno della memoria e poi dal 30 gennaio). Un ritratto coinvolgente che si muove fra la sfera privata quella pubblica.
«Per me è stata soprattutto una nonna molto vicina alle sue nipoti», dice Isabelle Veil Perona, figlia di Jean, il primogenito di Simone Veil, in questa intervista concessa in esclusiva a Famiglia Cristiana. «Appena le era possibile, si ritagliava del tempo dai suoi impegni pubblici per stare insieme a noi. E aveva un’attenzione particolare per le nipoti femmine: ci raccomandava di studiare e lavorare, di essere indipendenti».
E quale ricordo ha del nonno Antoine, il marito di Simone?
«Erano molto legati. Il film racconta bene come, prima dell’ingresso in politica della nonna, lei era nota come “la moglie di Antoine”, perché lui aveva intrapreso una carriera di prestigio nell’amministrazione statale; poi si è dovuto fare da parte, lasciando la politica per il settore industriale, tanto da diventare “il marito di Simone Veil”. Ne ha sofferto un po’, ma non ha mai fatto mancare il suo sostegno alla nonna».
A voi nipoti ha parlato della Shoah?
«Non amava parlarne in famiglia, probabilmente per proteggerci. Naturalmente non eravamo all’oscuro della terribile esperienza che aveva vissuto, ma quando stava con noi si concentrava e dedicava alle nostre vite: so che preferiva tornare su questi argomenti con gli altri deportati. Le cose sono cambiate quando, nel 2005, Paris Match le propose di tornare nel lager: lei accettò, e volle portare anche noi nipoti… Ci disse che era impossibile capire ciò che aveva vissuto, il dolore che aveva provato. Che nessuno era in grado di capirlo».
Proprio a causa di questo “trauma” aveva fatto dell’Europa unita una delle ragioni di vita. Che cosa penserebbe oggi che quel progetto, in tante occasioni, si dimostra fragile?
«Lei ripeteva che per garantire la pace era necessario costruire una difesa comune europea. Denunciò sempre questa lacuna nel progetto originario. Detto questo, la sua domanda mi riporta a un ricordo molto personale. Da 30 anni sono sposata con un italiano, la mia è una famiglia franco-italiana, e questo a nonna Simone piaceva molto, perché vedeva in noi un esempio di quell’Europa che sa stare insieme nelle differenze, che sa confrontarsi. Non perdeva occasione di dialogare con persone di altre nazionalità e culture».
Purtroppo oggi, anche in Europa, si susseguono episodi di razzismo e antisemitismo. Come avrebbe reagito Simone Veil?
«Avrebbe continuato a testimoniare l’orrore del lager, avrebbe moltiplicato gli sforzi per trasmettere, soprattutto alle nuove generazioni, il messaggio che l’odio non ha senso, che porta solo distruzione e che bisogna evitare ogni estremismo. Lei stessa, come documenta il film, ha dato l’esempio, tornando in Germania e nei campi di concentramento».
La presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen qualche anno fa ha affermato: «Se l’UE fosse una donna, sarebbe Simone Veil». Secondo lei c’è una figura oggi in Europa o nel mondo che più di altre ha raccolto la sua eredità?
«Non saprei… Quello che posso dire è che, quando è morta, io ho perso una nonna a cui volevo bene, mentre tantissime persone hanno lasciato capire che avevano perso qualcuno che aveva saputo mostrarsi sensibile ai loro bisogni, che in qualche modo aveva segnato la loro vita. Ha condotto così tante battaglie – per i detenuti, le donne, i malati, gli ebrei, l’Europa, la dignità lavorativa – che è difficile identificare un solo erede».
Colpisce come Simone Veil abbia saputo trasformare l’enorme dolore che aveva dovuto affrontare in energia per combattere a favore dei più fragili, dai detenuti ai malati ai tossicodipendenti…
«Sì, non sopportava l’ingiustizia e si prendeva cura dei più fragili. Riceveva tantissime lettere, non solo da personalità della politica, ma anche da comuni cittadini… Nei fine settimana e durante le vacanze che trascorrevamo insieme la vedevamo alla scrivania, di notte, a scrivere: aveva una grafia difficile da interpretare, ma di certo voleva rispondere a tutti».
Fra le sue battaglie vi fu anche quella, controversa e dolorosa, per la depenalizzazione dell’aborto in Francia…
«Credo che il film spieghi bene questo aspetto, ed esistono documentari molto approfonditi sulla questione. Posso dire solo che per lei in gioco non c’era soltanto la questione della libertà delle donne, ma molto di più: un’emergenza sanitaria, il desiderio di proteggere le donne più deboli e meno abbienti… (Il film riporta il discorso della Veil al Parlamento francese in cui definisce l’aborto «un fallimento e un dramma», ricorda che «nessuna donna lo sceglie mai con leggerezza, basta ascoltare le loro storie», e denuncia il fatto che le donne in difficoltà, soprattutto quelle sole, vengono abbandonate sé stesse alimentando il ricorso a pratiche che provocano gravi danni alla salute, lasciando a quelle abbienti la possibilità di andare all’estero, ndr).
Aveva incontrato Primo Levi?
«Non so se ci furono contatti diretti tra loro, ma posso rivelare che aveva letto le sue opere, dal momento che raccomandava a noi nipoti di leggerle».
Quando oggi pensa a nonna Simone, qual è il sentimento più forte che la pervade?
«Mi manca come nonna, ma la caratteristica della sua personalità che più mi colpiva era il desiderio di confrontarsi, di discutere anche animatamente, portando ciascuno le proprie ragioni, argomentando il proprio punto di vista. Amava lo scambio intergenerazionale, mettersi in ascolto dei giovani, ascoltare quello che pensavano, anche se lei aveva un’idea precisa sulle cose».