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«L’invasione del Libano? Evidentemente Israele non ha imparato nulla dalla storia»



Il giornalista Camille Eid, originario di Beirut.

1600 raid in sole ventiquattr’ore e un bilancio di oltre 500 morti. È questo il drammatico scenario con cui il Libano si ritrova ad avere a che fare subito dopo il massiccio attacco aereo da parte di Israele. L’Idf ha ripreso i bombardamenti nel Nord-Est del territorio che hanno provocato oltre venti vittime, delle quali 19 siriane. «Ho finito di parlare proprio mezz’ora fa con una famiglia cristiana che si trova tra gli sfollati. In lacrime, mi hanno raccontato la terribile situazione che stanno vivendo», racconta il giornalista libanese Camille Eid, originario di Beirut. «Vivono nel Sud del Paese, sono state date loro appena due ore per caricare i bagagli in macchina e lasciare la zona. Nella narrazione che viene fatta, sembra che le forze israeliane colpiscano soltanto gli obiettivi militari di Hezbollah, ma non è così, perché gli uomini di Hezbollah provengono da ogni parte del Paese e quando uno di loro viene preso di mira, inevitabilmente, sono coinvolti anche altri civili», prosegue Eid, che nelle ultime ore, sulla sua pagina Facebook, ha voluto postare le foto di alcune giovani vittime dell’attacco. Da Yasmina, una bimba di 6 anni, che scrisse su un biglietto il desiderio di rimanere salva assieme alla sua famiglia durante i bombardamenti, alle sorelle Rabab e Zainab Marouni, insegnanti della Al-Hikma Model School, decedute insieme con la cugina Zainab Hamdan, anche lei docente della Scuola Evangelica, e la giovane Malak Jabr, rimasta uccisa assieme al figlioletto Khalil di appena 7 giorni. «Il problema è questo, non si fa alcuna distinzione tra obiettivi militari e civili. Lo abbiamo constato anche nell’esplosione dei walkie-talkie e dei cercapersone la settimana scorsa. Quando fai saltare un apparecchio in una zona comune, magari al mercato all’aperto, oppure in un ufficio, inevitabilmente l’esplosione causerà più vittime».

Si fa sempre più minacciosa l’ipotesi dei boots on the ground, ovvero un’invasione di terra da parte di Israele. Quali sarebbero le conseguenze di una guerra su larga scala che rischierebbe di travolgere l’intero Medio Oriente?
«Sarebbe un fatto gravissimo, vorrebbe dire che Israele non ha imparato nulla dalla storia, perché già nel 1978 e poi di nuovo nell’82 scelse la strada dell’invasione. Nel suo ultimo discorso di una settimana fa, il leader di Hezbollah aveva lanciato una sorta di sfida agli israeliani, quasi esortandoli a invadere il Libano, ma avvertendoli al tempo stesso che, dall’altra parte della barricata, avrebbero trovato tutte le persone ferite e mutilate dalle esplosioni dei cercapersone».

Quanto pensa sia concreta la possibilità di un’invasione?
«Difficile dirlo, perché un’azione del genere non soltanto non converrebbe a Israele, ma finirebbe per coinvolgere anche gli Stati Uniti, i quali hanno fatto capire che con questa guerra non vogliono aver niente a che fare. Per non parlare poi dell’Iran e delle altre forze…».

In Israele, da diverso tempo ormai, molta parte della popolazione ha preso le distanze dal premier Benjamin Netanyahu e dal suo governo. In Libano, invece, qual è la situazione? Hezbollah gode dell’appoggio dei cittadini?
«Sono sincero, al di là di quelle che sono le ideologie, le strategie e la politica intrapresa, la questione Hezbollah non gode di un consenso unanime da parte dei libanesi. C’è chi sostiene la causa, adducendo motivi di inferiorità militare, perché il Libano non viene armato dagli americani o, più in generale, dall’Occidente come altri Paesi e questo lo pone in una condizione di debolezza; e chi, invece, ritiene che Hezbollah abbia creato uno “Stato nello Stato”, prendendosi la responsabilità di una decisione unilaterale e trascinando il Libano in un conflitto che nessuno vuole. In presenza di un attacco esterno, però, come sta accadendo ormai da una settimana a questa parte, c’è stata un minimo di coesione nazionale, soprattutto nella giornata delle esplosioni dei walkie-talkie e dei cercapersone. In una manciata di secondi sono stati fatti saltare 4mila apparecchi: questo ha scaturito un forte senso di appartenenza alla Nazione da parte dei libanesi».

Quant’è limitante, per eventuali colloqui di pace, il fatto che Hezbollah sia riconosciuto come un’associazione terroristica da parte degli Stati Uniti e da Israele stesso?
«Non credo rappresenti uno scoglio insormontabile. Attualmente gli Stati Uniti, per non trattare direttamente con Hezbollah, s’interfacciano col presidente del Parlamento, Nabih Berri, capo politico del movimento di Amal. Va da sé che il presidente parli anche a nome di Hezbollah. Significa aggirare un ostacolo, hanno fatto la stessa cosa con Hamas, dove il Qatar ha svolto un ruolo di mediazione. Per non parlare degli anni ’70 e ’80 con l’OLP. La cosa che più mi preoccupa, nel tentativo di arrivare a un accordo di pace, è vedere come gli Stati Uniti vengano sempre presi “in contropiede” dagli israeliani. Ogni volta che Israele attacca, gli americani si chiamano sempre fuori, dicendo di non essere a conoscenza di nulla, di non essere stati avvisati».

Quanto è concreto il rischio che il Libano venga “isolato” nel panorama internazionale?
«Non penso che corriamo questo rischio, penso alle posizioni della Francia e del Qatar. La Turchia ha inviato una delegazione per cercare di trovare una via d’uscita. Rimane forse la Santa Sede che, attraverso i suoi canali diplomatici, con molta discrezione, può dare garanzie molto più efficaci al Libano. Ci tengo a ringraziare il Santo Padre, perché inviando il nunzio apostolico in alcune città del Sud del Paese a celebrare Messa e portare un minimo di conforto ha dato alla popolazione la sensazione di non essere abbandonati».

E invece al leader israeliano Netanyahu cosa direbbe?
«Mi limito a ribadire quello che alcuni ufficiali statunitensi hanno già ricordato in questi giorni: una guerra col Libano non porterebbe da nessuna parte e risulterebbe dannosa anzitutto per Israele. Devono pensare a come fare la pace, a costruire una pace giusta e questa non può che arrivare dal riconoscimento di uno Stato palestinese. Tutto il resto, diventa solo una perdita di tempo che, ahimè, non fa altro che provocare migliaia di nuove vittime».





Dal sito Famiglia Cristiana

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