Con Paolo Scheggi (Firenze,1940 – Roma, 1971), artista geniale e visionario, uno dei più interessanti del Novecento, stroncato a soli trent’anni da una malattia al cuore, la tela si fa superficie scultorea da modulare. Le sue opere assorbono l’esperienza spazialista di Lucio Fontana. Il critico d’arte Gillo Dorfles nel 1965 conia il termine, che ne racchiude lo stile distintivo: “Pittura a oggetti”. Per Germano Celant solidifica e struttura il varco tracciato da Fontana sfruttando in tutte le direzioni il gesto radicale di oltrepassare la bidimensionalità, anche in senso spirituale.La mostra, curata da Ilaria Bignotti, dal titolo Paolo Scheggi. Making Spaces (Milano, Cardi Gallery, 26 gennaio – 15 aprile), in collaborazione don l’Associazione Paolo Scheggi, si rivolge a chi cerca forme espressive che riescano a coniugare in maniera sorprendente dal punto di vista concettuale e fisico l’interdisciplinarità.
«Era dal 2004 che non si teneva una sua personale. La mission della nostra associazione è portare avanti tutti quei progetti che non sono stati completamente capiti o realizzati o sviluppati perché Scheggi scompare prematuramente, del resto dieci anni di lavoro sono pochi nella vita di un artista. In questa mostra ci siamo concentrati sull’aspetto della progettazione, dell’architettura integrata in rapporto con il design», racconta Ilaria Bignotti. «La tela per lui doveva essere anche uno strumento di integrazione plastica all’architettura, distensione nello spazio abitato privato e pubblico». Su due piani, la mostra è una interessante selezione di oltre venticinque opere, frutto di una ricerca artistica dai primi anni Sessanta all’inizio degli anni Settanta, dell’artista toscano, che a Milano nel 1961 incontra Lucio Fontana e dà avvio alla fase della sperimentazione vera e propria.
Dalle prime opere sperimentali con sovrapposizione di materiali, realizzate nella sua casa di Settignano, a quelle che lo consacreranno artista di fama internazionale il passo non è lungo ma intenso. Pittura monocroma, pittura a oggetto, prima ancora transitata nell’arte programmata e poi, negli ultimi tre anni, in linguaggi performativi e concettuali affascinanti.
Ricostruito, al primo piano, anche lo storico ambiente Interfiore, presentato per la prima volta alla Galleria La Tartaruga nel 1968. Si tratta di ottantotto (dei novantanove originali) anelli fluorescenti di legno, di varie dimensioni, sospesi a varie altezze, con un filo invisibile di nylon, in uno spazio oscurato illuminato solo con luce di Wood, dove lo spettatore “galleggia” in un ambiente di geometria liberata.
Il piano terra della mostra ospita Inter-Ena-Cubi, opere, disposte in scala cromatica dalla più fredda alla più calda, realizzate da Scheggi tra il 1965 e il 1971 o con moduli di cartoncino colorato e plexiglass oppure con moduli di metallo smaltato. “Lui voleva che fossero opere interattive, perché i cubetti di cui sono composte potevano essere spostati dallo spettatore a seconda di come avesse voluto organizzare il campo visivo, interpretando l’opera in maniera originale”, spiega la Bignotti. Nella parete di fronte, in scala cromatica uguale e in dialogo con le precedenti, nove Intersuperfici, formate da tre tele sovrapposte tagliate o in forma irregolare o in forma circolare perfetta, che creano sfasamento visivo.
Un’esperienza immersiva nelle geometrie perfette, anche metafisiche e spirituali, dell’artista. E un omaggio a Milano.