Satnam Singh è morto, ricordiamo ancora il suo nome? Satnam Singh è il bracciante indiano morto in ospedale a Roma, dopo essere stato abbandonato dal suo datore di lavoro, come un sacco dell’immondizia, di fronte a casa. Con lo sfregio di lasciargli accanto, in una cassetta della frutta, il braccio tranciato da un macchinario agricolo. Perché Satnam lavorava nei campi, in nero, raccoglieva meloni per cinque euro l’ora. E implorava che glieli dessero, i pochi spiccioli che guadagnava sudando undici ore al giorno, perché i padroni da quelle parti decidono loro se e come tenerti sotto scacco, ricattandoti. Se alzi la testa ti cacciano, oppure ti picchiano.
Satnam aveva una moglie, doveva pensare a lei. “Da quelle parti” equivale alla provincia di Latina, dove la comunità indiana supera, dicono, le 30 mila persone, contando malamente i clandestini. Non da ieri lo sfruttamento bestiale dei lavoratori è noto in quella provincia (e non solo). Non è “una mela marcia”, questo signore sotto indagine per caporalato da cinque anni. Adesso lo sarà per lesioni colpose e omissione di soccorso. Si dovrebbe scrivere per omicidio, per assassinio, per economia criminale. Che ha portato in un solo anno alla cifra di cento morti sul lavoro in Italia solo tra i migranti irregolari.
Viene da chiedersi perché tanta insistenza e accanimento della magistratura quando si tratta di presunti colpevoli, magari per motivi politici, e tanta lentezza o lassismo nei confronti di questi caporali, spesso collegati tra l’altro a organizzazioni ma¬fiose. Solo cavilli burocratici? Le leggi sono chiare, c’è un reato apposito nel codice penale, anche se la pena è ridicola: mille euro per ogni lavoratore sfruttato. C’è una proposta del governo per aggravare le pene, con attenzione alla ¬filiera intermedia che permette il reato, le cosiddette agenzie di lavoro interinale, le cosiddette cooperative (sono noti ad esempio gli addebiti ai familiari dell’onorevole Soumahoro, che continua a essere pagato da tutti noi cittadini per sedere in Parlamento).
C’è il lavoro costante, encomiabile della Guardia di Finanza: 60 mila lavoratori in nero scoperti in diciassette mesi di attività. Uomini e donne senza contratto, che vivono in catapecchie, baracche, prive di servizi essenziali. Dobbiamo saperlo e non solo indignarci davanti alle tragedie annunciate.
Dobbiamo essere netti e severi con chiunque sappiamo inadempiente rispetto alla dignità della persona. Dobbiamo spiegare ai nostri figli che il pro¬fitto a qualunque costo non soltanto è illegale ma è immorale e, per chi ci crede, è un peccato grave contro il precetto di «non defraudare della giusta mercede chi lavora». Un peccato che grida verso il cielo, come si esprime il Catechismo. Un peccato che riguarda credenti e non credenti, perché distrugge la vita sociale e pubblica, volge in male il guadagno, corrode e genera odio. A volte in disegni a noi incomprensibili oportet ut scandala eveniant, per smuovere la giurisprudenza e la politica.
Ma noi abbiamo intanto le coscienze, da smuovere, l’indifferenza e la rassegnazione.