Gli occhi, spaventati, interrogano attorno i grandi che, sgomenti, sembrano non accorgersi di lui. A quell’età nel mezzo del disastro, tra le macerie della scuola che conteneva sfollati palestinesi colpita nella Striscia Gaza, non significano niente le parti in campo, le ragioni contingenti e profonde che stanno dietro ai conflitti. Non significano niente le spiegazioni degli uni e degli altri: Israele che dice: “nella scuola c’erano terroristi”; Hamas che risponde: “c’erano solo civili”.
Vero o non vero che sia, a quell’età non si sa che cosa siano un terrorista e un civile. Si capisce, emotivamente, soltanto, che sta accadendo qualcosa di così grave che disorienta gli adulti che dovrebbero prendere i bambini per mano e rassicurarli. E non c’è niente che possa fare più paura a un piccolo di percepire che i grandi, le sue guide nel mondo, hanno perso la bussola e la rotta.
Bene che vada quel bimbo capirà col tempo che i grandi sanno fare di peggio che perdersi; possono prendere in mezzo i bambini nei loro conflitti: non solo ucciderli, ferirli, rapirli, usarli come un mezzo per far del male agli adulti del nemico – come si fa in ogni guerra regolare e irregolare –, ma anche crescerli nell’odio reciproco, alimentando le guerre del futuro.
Avrà tre anni bene che vada, ha negli occhi mille domande inevase che forse non sa ancora esprimere a parole. Se sta in un campo di sfollati probabilmente non avrà più una casa e probabilmente questa scuola in briciole, con un libro solo rimasto intero al centro, sarà l’unica che vedrà per molto tempo.
Da Kursk a Gaza City tregua olimpica non ce n’è stata, la guerra, dal Medio Oriente all’Ucraina e in tante altre parti del mondo meno sotto i riflettori, ha continuato a vincere, e intanto un numero incalcolabile di bambini continua a perdere. Tutto, compresa l’innocenza.