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Kashmir, notte di attacchi tra India e Pakistan

Almeno 38 morti nello scontro più grave degli ultimi vent’anni. Sono entrambe potenze nucleari, hanno combattuto almeno tre guerre principali oltre agli innumerevoli scontri armati minori, da decenni non riescono a mettersi d’accordo sul destino del Kashmir

Guglielmo Gallone – Città del Vaticano

Martedì sera è nuovamente esplosa la tensione tra India e Pakistan. L’India ha annunciato di aver condotto attacchi missilistici contro infrastrutture usate dai miliziani nel Kashmir controllato dal Pakistan, in particolare su nove siti definiti «campi terroristici». Secondo funzionari di Islamabad, però, i razzi avrebbero colpito anche la regione orientale del Punjab, abbattendosi su una moschea della città di Bahawalpur, provocando la morte di un bambino, su centrali elettriche e dighe. Con un post su X, il primo ministro pakistano, Shehbaz Sharif, ha avvertito che «abbiamo tutto il diritto di rispondere con la forza a questo atto di guerra» e, dopo aver convocato il Comitato per la sicurezza nazionale, le forze armate del Pakistan hanno abbattuto cinque jet indiani. 

Il bilancio delle vittime

Almeno 26 civili hanno perso la vita in Pakistan e altre 12 persone sono morte in India a causa degli attacchi. Quello avvenuto ieri sera è il più grave scontro militare tra i due Paesi negli ultimi vent’anni. Ed è inevitabilmente legato al massacro di 25 turisti indiani e un cittadino nepalese avvenuto nella regione del Kashmir il 22 aprile scorso e rivendicato da un gruppo militante islamico, autodefinitosi Fronte della Resistenza. L’India ha accusato il Pakistan di fiancheggiare i responsabili, ma Islamabad ha negato. Le accuse reciproche sono andate avanti per giorni, con l’India che ha messo in atto una serie di misure punitive declassando i rapporti diplomatici, sospendendo un trattato fondamentale sulla condivisione delle acque e revocando tutti i visti rilasciati ai cittadini pakistani. Per rappresaglia, il Pakistan ha chiuso il suo spazio aereo a tutte le compagnie aeree indiane e ha sospeso gli scambi commerciali con l’India.

Perché conta il Kashmir

Il Kashmir si conferma uno dei nodi geopolitici più conflittuali al mondo. Innanzitutto, per la sua posizione geografica: è una  porta d’accesso all’Himalaya, permette di controllare vie di collegamento tra Asia meridionale e centrale, è ricco di risorse idriche vitali per l’agricoltura e l’approvvigionamento idrico. Di riflesso,  chi lo controlla ha una posizione dominante sui confini più sensibili. Non a caso, i conflitti per il controllo di quest’area risalgono al dodicesimo secolo, con le prime invasioni musulmane, e poi alle lotte imperiali tra Mughal, Durrani e Sikh del diciottesimo secolo.

Le guerre pregresse

Dopo la seconda guerra mondiale, con la fine del dominio britannico, nascono due Stati: India (a maggioranza induista) e Pakistan (a maggioranza musulmana). Il Kashmir, regione a maggioranza musulmana ma governata da un maharaja induista (Hari Singh), decide di unirsi all’India temendo possibili invasioni militari pakistane ma scatenando così la prima guerra indo-pakistana (1947-1949). Nonostante il cessate-il-fuoco e la spartizione dei territori, l’India consolida il controllo sul Kashmir, alimentando però il risentimento pakistano. Islamabd prima trova appoggio nella Repubblica Popolare Cinese —  che entrerà in guerra con l’India nel 1962 — e poi avanza nel Kashmir dando inizio, nel 1965, alla seconda guerra indo-pakistana, cui ne seguirà una terza nel 1971 per l’indipendenza del Bangladesh.

Le reazioni internazionali

In modo inedito per il mondo bipolare,  negli anni Sessanta Cina e Usa supportarono Islamabad, mentre l’Unione Sovietica si schierò a fianco di New Delhi. La domanda che gli osservatori si pongono è come un ipotetico conflitto tra queste due potenze nucleari possa modificare lo scacchiere internazionale di un mondo non più bipolare bensì multipolare e più frammentato. Per il Pakistan, fondato come Stato per i musulmani del subcontinente indiano, il Kashmir rappresenta una “continuazione naturale”. Per l’India, paese laico e multireligioso, mantenere il Kashmir è simbolo della sua identità inclusiva e della convivenza interreligiosa. Nel mezzo, il Kashmir, che ha un’identità culturale propria, con una popolazione a maggioranza etnica d’origine dardica e indo-ariana e una lunga tradizione di convivenza tra musulmani, induisti, sikh e buddisti, anche se negli ultimi decenni le tensioni hanno frammentato questo tessuto. All’indomani degli attacchi, Usa, Cina e Russia hanno incoraggiato Pakistan e India a risolvere l’escalation militare, mentre le Nazioni Unite hanno ribadito il messaggio più importante: «Il mondo non può permettersi uno scontro militare».



Dal sito Vatican News

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