di Anna Maria Selini
Le rotonde sbriciolate. Entrando a Jenin, nel nord della Cisgiordania, sono le rotonde stradali distrutte il primo segnale dell’operazione militare israeliana in corso dal 21 gennaio scorso. I monumenti e i simboli che le decoravano sono spariti, travolti dai bulldozer e dai tank diretti al campo profughi di Jenin, quello che per gli israeliani è uno dei principali covi di “terroristi” di tutta la Cisgiordania. Per i palestinesi, invece, è uno dei centri della resistenza armata, ma non solo. «Non c’è più resistenza, il campo è stato completamente svuotato e la gente è stata cacciata – racconta padre Amer Jibran, parroco della chiesa del Santo redentore di Jenin – ma anche le persone che non c’entravano niente con la resistenza ora non hanno più una casa».
Il campo profughi è inaccessibile, le strade sono state sbarrate con cumuli di terra e sui tetti, dicono gli abitanti, ci sono i cecchini israeliani. Sono ventiduemila le persone che si sono ritrovate senza un tetto e un sostegno economico, se non quello di parenti e amici. Nuovi profughi che si aggiungono a quelli storici, dato che il campo era popolato principalmente da rifugiati del 1948, sfollati, cioè, dopo la nascita dello Stato di Israele. Ma a Jenin vivono anche dei cristiani, cinquemila in tutto il governatorato, un’ottantina di famiglie in città. «Io sono qui dall’agosto scorso – dice padre Jibran – quando l’esercito israeliano era entrato in città e già allora la situazione era difficile, ma dopo il 7 ottobre 2023 (quando Hamas e altri gruppi armati palestinesi hanno attaccato il sud di Israele ed è scattata la risposta israeliana contro Gaza, uccidendo oltre 50 mila persone), le difficoltà sono aumentate, soprattutto per il lavoro».

Padre Amer Jibran.
I permessi per i palestinesi che si recavano in Israele a lavorare sono stati annullati e anche i cristiani, in quanto palestinesi, sono rimasti coinvolti. «Tanti hanno perso il lavoro – continua padre Jibran – e da fine gennaio scorso la situazione è peggiorata ulteriormente. Anche muoversi da una città all’altra è molto difficile, ci sono novecento checkpoint in tutta la Cisgiordania”. “La nuova strada che collega Jenin a Ramallah è tra le più pericolose – spiega Omar Harami, direttore del centro ecumenico Sabeel – perché passa sotto le colonie e qui nel nord i coloni sono tra i più violenti, insieme a quelli a sud di Hebron. Lanciano sassi contro le macchine con targa palestinese, ma è capitato anche che sparassero». Le strade e le targhe sono diverse per i palestinesi e gli israeliani, che da queste parti sono coloni principalmente nazionalisti religiosi, convinti cioè che la terra gli appartenga per diritto divino e che i palestinesi non debbano starci. L’ultima trovata per rendere insostenibile la vita ai palestinesi e favorire, quella che alcuni ministri israeliani chiamano “migrazione volontaria”, sono i cancelli colorati. Quelli gialli esistevano già e sono utilizzati dall’esercito israeliano per chiudere una strada. Ora però ci sono quelli arancio, le cui chiavi, dice Harami, «sono in dotazione ai coloni, che possono così tenere in scacco interi villaggi o chi magari deve andare in ospedale».
Abeer, 62 anni, e suo marito Joseph Haddad, 72, vivono esattamente all’angolo del campo profughi di Jenin, sono cattolici e tra i loro tre figli c’è George, che parla italiano perché è un frate minore francescano, oltre che il vice-parroco della chiesa di Betlemme e direttore del Terra Santa college, la scuola più antica del Medioriente fondata dai francescani nel 1598. È in visita a Jenin ed è lui a raccontare la paura provata per i genitori, dopo che un carro armato israeliano ha distrutto parte del muro esterno della loro casa. «Quando è iniziata la guerra a Gaza e sono entrati nel campo – racconta fra’ George – hanno buttato giù un muro di casa. Poi nel gennaio scorso, un carro armato ne ha abbattuta un’altra parte. I soldati sono entrati in casa e ci sono rimasti due ore, c’erano solo mia madre, mia cognata e mia nipote. Volevano sapere chi ci viveva, cosa facevano; non hanno fatto nessun altro danno, ma il muro è rimasto aperto per settimane, non ci davano il permesso di coprirlo. Sono molto fiero dei miei genitori, sono coraggiosi, non hanno voluto lasciare la casa, come invece chiedevamo noi figli: sono stati tre settimane senza uscire e aprire le finestre». Ma i genitori di fra’ George non sono stati obbligati ad andarsene, a differenza degli abitanti del campo, tutti musulmani, come Faten, che preferisce non dire il suo nome reale, perché come tutti i palestinesi è terrorizzata a parlare con i giornalisti, vista la campagna di arresti in corso in tutta la Cisgiordania. «Molti – dice – vengono arrestati dagli israeliani anche solo per un post su Facebook e non è un’esagerazione».

Faten ha dovuto lasciare il campo con suo marito e due bambine. La piccola si rotola spensierata sulla moquette, mentre la madre trattiene a stento le lacrime. Hanno trovato posto in uno studentato universitario, le scuole sono chiuse e gli studenti non ci sono. Vivono stretti in un bilocale decoroso: una zona giorno, una camera da letto e un bagno, la lavatrice condivisa nel corridoio, ogni famiglia una bilocale. «Le mie figlie stanno perdendo la scuola da più di un anno e mezzo – racconta Faten – mio marito non lavora e qui dobbiamo pagare l’affitto. L’Autorità nazionale palestinese non ci aiuta e non sappiamo quanto potremo rimanere». Gli abitanti del campo profughi solitamente sono assistiti dall’Unrwa, l’agenzia delle Nazioni Unite per i profughi palestinesi, ma da gennaio il parlamento israeliano l’ha messa al bando in Israele e limitata anche nei territori occupati: a Gaza di fatto non opera più, nonostante gli enormi bisogni della popolazione, in Cisgiordania con molta fatica. Prima garantiva l’istruzione ai bambini del campo, ora riesce a dare solo assistenza sanitaria primaria e supporto psicologico ad adulti e bambini. «Per noi palestinesi l’educazione è molto importante – dice padre George – perché è il tentativo di dare ai propri figli almeno un futuro sicuro, magari lontano, ma tutti vogliono tornare dove si sedevano da bambini».