Alfredo Rampi aveva sei anni e un sorriso grande così, che noi conosciamo solo da una foto che lo ritrae con la canottiera a righe bianca e blu. Caduto in un pozzo non protetto a Vermicino (Roma) l’11 giugno del 1981. Per tre giorni si è provato in ogni modo a salvarlo, mentre la Tv per la prima volta nella sua storia portava quei tentativi disperati in diretta nelle nostre case. Era un modo nuovo di fare informazione, ma il ricordo indelebile di ciascuno di noi, che fosse adulto o bambino, ci dice che qualcosa, pur in buona fede in quei tre giorni ci è scappato di mano: abbiamo creduto di assistere a un salvataggio e invece ci è arrivata la morte in diretta, mentre attorno a quel buco infangato nella terra in cui moriva un bambino si affollavano volontari, autorità, curiosi che in tre giorni sono diventati una folla. Erano le ultime 60 ore di vita di un bambino e le abbiamo vissute come uno spettacolo, con un tifo da partita di calcio. Ecco com’è andata.
Vigili del fuoco, volontari, speleologi si calarono nel pozzo
di Orsola Vetri
Erano le tre di notte dell’11 giugno 1981 quando a casa Monteleone suonò il telefono. La polizia cercava Maurizio perché, in qualità di speleologo, partecipasse al recupero di un bambino, Alfredino Rampi, caduto in un pozzo artesiano a Vermicino, poco fuori Roma. È così che ha inizio la storia di questo ventiseienne, che insieme a una squadra composta dai migliori speleologi di Roma, attrezzata per i soccorsi in grotta, prese parte a una delle più amare vicende di cronaca, destinata a imprimersi nell’immaginario collettivo.
Una storia senza lieto fine che contiene tutti gli elementi delle peggiori paure umane: «Il bambino che scompare, il pozzo vicino a casa, il buio, la profondità», tutti archetipi che Maurizio Monteleone riporterà anni dopo in una graphic novel intitolata L’incubo del pozzo. Cosa ha visto appena è arrivato a Vermicino? «Con il caposquadra Tullio Bernabei siamo arrivati per primi, faceva giorno e c’erano poche persone. Purtroppo i vigili del fuoco avevano già calato la famosa tavoletta nella speranza ingenua che il bambino potesse aggrapparvisi. Invece era rimasta incastrata. Noi speleologi abbiamo avuto la consapevolezza della gravità e della difficoltà della situazione che ci imponeva di intervenire in una cavità in verticale molto, troppo, stretta».
Lei è sceso tra i primi. «Dopo Tullio Bernabei. Mi hanno calato a testa in giù, una corda di calata alle caviglie e quella di sicura all’imbragatura. Senza casco per non incastrarci nella discesa e nella salita. Al polso una torcia portatile che tenevo in mano. Il diametro del pozzo, inizialmente di 45 cm, diventava 28 quando si incontrava la roccia viva. Ho tentato di avanzare ma era impossibile. Vedevo la tavoletta che ostruiva per metà la visuale e ho percepito la presenza di Alfredo più in basso e forse, sono passati 40 anni, mi sembra di aver visto la sagoma della sua testa. Fa male ricordarlo, ma più che la sua voce, ho sentito dei lamenti. Dopo dieci minuti in quella posizione mi sono arreso all’impossibilità di proseguire. Ho dato ordine di tirarmi su: come Tullio avevo i capillari del volto esplosi per via del sangue alla testa».
Ci sono state “discussioni” su come agire? «Elveno Pastorelli, capo dei Vigili del fuoco, si era preso la responsabilità di farci scendere. Si è poi innescato una specie di confronto generazionale sulle modalità di intervento. Dopo il tentativo mio e di Tullio decise di favorire l’uso di una trivella che scavasse un pozzo parallelo per raggiungere il bambino. Sembrava essere l’unica alternativa possibile. Ho poi capito con gli anni che sarebbe stato un azzardo proseguire nella sola direzione di calare qualcuno di noi. Con gentilezza ci ha messi da parte, ma ha continuato a consultarci. Il reperimento della trivella e l’impianto per farla funzionare hanno però portato via del tempo».
Quando si è reso conto del circo mediatico? «Approfittando della nostra inutilità sono rientrato a casa per tranquillizzare mia madre. Solo lì, dall’esterno, ho visto cosa stava succedendo. Non ne avevo avuto fino a quel momento la percezione. La situazione stava degenerando, assumendo una dimensione inattesa. Sono rientrato a Vermicino dopo un paio d’ore e si era creata una folla che non mi sarei mai aspettato. Qualcuno mi ha riconosciuto e ho potuto superare la cinta del servizio d’ordine per riprendere la mia posizione di speleologo a disposizione».
Ricorda i genitori? «Ho parlato con la madre che mi ha fatto vedere la famosa foto di Alfredino. Quella che conosciamo tutti, in cui sorride e indossa la maglietta a righe. Come per dire “te lo voglio far conoscere”. Pur rassicurandola dell’efficienza delle operazioni, non sono stato capace di reggere il suo sguardo». Quanto ci ha messo a elaborare quei momenti traumatici? «Speravo con la pubblicazione del libro, dieci anni fa, di essermi buttato tutto alle spalle. Doveva essere l’ultima tappa di un percorso durato anni. Il L’incubo del pozzo (001 Edizioni). È il brutto sogno che ho fatto per anni, quello in cui raggiungo Alfredo. Il quarantennale e la fiction hanno risvegliato i ricordi». Perché una graphic novel? «Dopo Vermicino ero avvelenato verso i media e ho sofferto per lo sciacallaggio giornalistico. Ancora oggi si continua a parlarne senza capire. Il lessico è importante per spiegare cosa facevamo io, gli altri speleologi o il volontario Angelo Licheri. Nel libro non solo scrivo la vicenda, ma la illustro con tutti i particolari tecnici. I disegni mostrano quello che neanche le telecamere potevano vedere. Mi sono trasformato nel cantastorie che in piazza racconta attraverso i disegni e non si esime da criticare le autorità».
Con le tecnologie attuali Alfredino si sarebbe salvato? Sono passati 40 anni, ma un pozzo di 28 cm di diametro resta un pozzo di 28 cm e un bambino di 6 anni resta un bambino di 6 anni. La macchina che riesca a monitorare, misurare, riferire e recuperare che io sappia ancora non esiste. L’unica soluzione avrebbe potuto essere Angelo Licheri (il volontario minutissimo che si calò nel pozzo ndr. per cercare di afferrare il bambino), ma 48 ore prima. Prima che Alfredino scivolasse ancora più in basso, fino a oltre 60 metri, nella profondità della terra».

Il centro Rampi, non ripetere “casi Alfredino”
di Elisa Chiari
Tutto è iniziato davanti a quel pozzo, con una mamma disperata che raccontava a un presidente della Repubblica empatico e pragmatico come Sandro Pertini che cosa era mancato nel tentativo di salvare il suo bambino: un coordinamento nei soccorsi, nonostante la generosità di tante persone.
Qualche settimana dopo Franca Rampi, la mamma di Alfredino, ricevette una telefonata. Era Sandro Pertini: «Signora, per lei ho istituito un ministero della Protezione civile». In mezzo a quelle settimane drammatiche, attorno alla fine di giugno 1981, è maturata, per sopravvivere a un dolore indicibile, ma soprattutto per prevenirne altre forme, l’idea del Centro Rampi. (informazioni: www.centrorampi.it ). A raccontare è Rita Di Iorio, psicoterapeuta, presidente del Centro Alfredo Rampi con Daniele Biondo. Entrambi ne hanno seguito l’esperienza fin dall’inizio: «Ci siamo dedicati da subito alla cultura della sicurezza, per arrivare alla tutela dell’infanzia, passando per la tutela dell’ambiente e per la prevenzione dei rischi sul territorio, senza trascurare il soccorso in emergenza. È stato un lungo percorso, che ci rende un punto di riferimento a livello nazionale nella formazione di operatori del soccorso, insegnanti, volontari, educatori al rischio nelle scuole. Abbiamo potuto farlo grazie all’aiuto, di molte persone, istituzioni, volontari, esperti».
Alla base di ogni attività, convegno, studio, formazione, sempre la stessa parola magica: coordinamento, quello mancato in quei tre giorni a Vermicino: «Quando si tratta di mobilitarsi l’Italia è un Paese generosissimo, ma quell’esperienza tragica ci ha insegnato che nel micro e nel macrointervento si tratta sempre di governare la complessità, e per farlo occorrono équipe pluridisciplinari, con un coordinamento unico, formate a intervenire professionalmente e validamente: vale per il piccolo incidente come per il terremoto o la pandemia. La buona volontà non basta, quel giorno non bastò perché i vigili del fuoco erano soli, e quando arrivarono gli speleologi non c’era una modalità rodata per farli dialogare. Oggi sappiamo da tutta l’esperienza maturata in Protezione civile che anche il volontario perché possa agire efficacemente deve essere formato per l’impegno in cui opera, far parte di un’associazione riconosciuta, che viene attivata da un ente che gestisce l’intero intervento: solo così si sa chi chiamare, in tempi rapidi, senza disperdere energie preziose. Si è imparato molto in questi 40 anni, le stesse istituzioni sono state presenti. Solo in una cosa è difficile farsi ascoltare: la prevenzione. Si stenta a fare programmazione sul lungo periodo». E.CHI.
QUELLA DIRETTA SENZA FILTRI, L’INIZIO DELLA TV DEL DOLORE, LO SPETTATORE NELLA MISCHIA
Vermicino, basta questo puntino di carta geografica tra Roma e Frascati per evocare un punto di non ritorno. Sono molti gli studiosi che indicano in quell’evento drammatico, esposto in una diretta così senza filtri da suggerire a un tribunale tempo dopo di vietarne ogni riproduzione, il punto storicamente esatto della perdita della misura delle immagini e delle parole in Tv. Anna Bisogno, che aveva analizzato la questione in un saggio intitolato La tv invadente. Il reality del dolore da Vermicino ad Avetrana (Carocci). Professoressa, che cosa è cambiato in Tv da quel giorno? «Con Vermicino si è assistito alla prima vera commistione tra informazione e fiction: se la prima è un’istanza legata al conoscere, la seconda è emotività pura. Quella tragedia diventata evento mediatico, racconto per immagini del vano tentativo di salvare una vita, ha indirizzato l’eterno flusso televisivo sulla strada del dolore in veste di intrattenimento. Si è sdoganata lì la Tv del dolore e ha fatto scuola».
In che modo? «Da allora lo spettacolo televisivo si intrattiene sul dolore, lo volge in chiacchiera – laddove per natura è urla o silenzio –, trasforma l’uomo in spettatore, rivendica una platea chiassosa da salotto. Quello a cui assistiamo è “dolorismo”, un dolore spogliato della sua essenza, che dal tutto diventa dettaglio morboso e confina con l’orrore “dolorrore”, racconto dei vivi alimentato dalla memoria dei morti. Si pensi all’escursionismo macabro nei luoghi che la Tv elegge a “culto” nelle sue ridondanti ricostruzioni senza misericordia: lo chalet di Cogne, la casa di Erba, il garage di Avetrana».
Oggi le regole deontologiche del giornalismo impedirebbero di esporre un bambino come si fece con Alfredo. Ma quanto arginano una volta che si sconfina nell’intrattenimento? «Quella del dramma di Vermicino era una Tv ancora piuttosto artigianale, presa dalla necessità di riempire lunghe ore per un fatto di cronaca, conservava un certo senso del pudore: non era uno spettacolo, o almeno fino ad allora nessuno pensava che lo fosse. Di lì in poi l’informazione cambia approccio alla notizia: dilata l’oggetto esplorato, abusa del diritto di cronaca, cerca nuovi ambiti di appeal, alimenta un senso di onnipotenza in cui il Gabibbo ha preso il posto del poliziotto, Le Iene e Chi l’ha visto? del tenente Colombo».
Come entrano i social in questo meccanismo? «Da Vermicino a Cogne è cambiata l’esperienza mediale: non più solo cognitiva, ma anche emotiva, relazionale. Con Avetrana, il passaggio da informazione a infotainment (commistione tra informazione e intrattenimento, ndr) ha reso funzionali le proprie caratteristiche: esasperazione della notizia, uso di un linguaggio evocativo e sempre meno obiettivo, ricerca spasmodica di retroscena, meglio se piccanti, uso sfrontato delle immagini, insistenza sulle dinamiche familiari, interviste in diretta a parenti in lacrime. A tutto questo si aggiunge la spinta emotiva dei social network che entrano in dialettica con i media tradizionali: notizie, commenti e critiche rimbalzano da una sfera all’altra. Si pensi al caso di Avetrana, con la mamma che inizia lanciando un appello sui social e finisce per scoprire mentre è ospite in diretta Tv la notizia della morte della figlia. Quante volte è stata uccisa Sarah in questa arena?».
Che ruolo ha in tutto questo lo spettatore? «Non è fuori dalla mischia: nel momento in cui sceglie alzando i numeri dell’audience dà indicazioni di gradimento, detta la linea. Se a Vermicino ci si è trovato dentro impreparato e quindi un po’ più puro, oggi sposa il voyeurismo che gli viene dato». (E.CHI)

L’attore Enrico Ianniello ha dato voce in un romanzo al suo ricordo di bambino davanti alla Tv
Ha dato i panni, il volto, la voce, i gesti e le mani al commissario Vincenzo Nappi e al dottor Modo. Per tutti Enrico Ianniello è l’attore di successo di Un passo dal cielo e del Commissario Ricciardi. Ma Ianniello è anche altro: uno scrittore che ha vinto il Campiello con il romanzo d’esordio e autore di Alfredino, laggiù (Feltrinelli 2021), il suo terzo libro. Un titolo che evoca non a caso, senza la pretesa di fare lettura su Alfredo Rampi, se non quella di dare voce alla generazione dei bambini che hanno assistito alla sua tragedia dalla Tv. Ianniello, come è maturata l’idea di un romanzo che nasce da lì? «Desideravo raccontare un personaggio, Andrea, che a un certo momento della sua vita si avvicina a qualcosa di misterioso che gli riporta alla memoria l’età della sua infanzia, della sua innocenza. Per la mia generazione il caso di Alfredino è stato un evento molto potente nella memoria collettiva, è stato naturale che fosse quello l’innesco».
Lei era un ragazzino, che cosa le è rimasto di quella vicenda così esposta? «Avevo 10 anni, a me è rimasto lo sguardo sgomento dei miei genitori: Andrea, mio coetaneo, nel libro capisce dai volti dei suoi che è accadu ta una cosa terribile, mai successa prima, che lo porta a chiedersi se e come cambierà la sua vita».
È un caso che la domanda riaffiori quando uno dei suoi bambini ha un piccolo incidente? «No, infatti è un romanzo sulla paternità. Andrea ritrova con turbamento il ricordo di Alfredino quando ha l’età di suo padre al momento della morte e ha un figlio dell’età di Alfredino. Si rende conto, da padre in un mondo diffcile, che Alfredino rappresenta la sua innocenza perduta: attraverso un’esperienza che potremmo chiamare di “sogno”, per non svelare troppo del libro, ritrova Alfredino vivo, luminoso, sorridente, attraverso di lui riesce a ritrovare la grazia perduta dal mondo contemporaneo, involgarito dalla perdita di compassione per il dolore altrui. Alfredino in qualche modo gli fa capire che anche Andrea un tempo è stato capace di quel sentimento e che potrebbe essere ancora capace di insegnarlo ai suoi figli. In questo mi piace pensare ad Alfredino come un “maestro” di innocenza».
Nel libro c’è un passaggio di critica alle dinamiche del mezzo televisivo, il farne parte le dà la dimensione della sua potenza? «Da “mestierante” di questa professione d’attore mi rendo conto di quanto potente sia il racconto che esce dalla televisione. Ma sono consapevole anche del potere negativo che emerge quando si usa il dolore altrui per fare audience: dalla vicenda di Alfredino in poi abbiamo intrapreso la terribile deriva di considerare normale fare soldi sulla sofferenza degli altri. Anche grazie allo strapotere di Instagram e Facebook, abilissimi a scollarci dalla realtà, possiamo assistere al dolore altrui senza che questo abbia più alcuna conseguenza sulla nostra vita. Per questo da autore ho fatto in modo che Alfredino fosse per Andrea la presa di coscienza che gli impedisce di trasformarsi nell’ennesimo degli indifferenti». Lo spettatore di quel tempo era nudo davanti a una cosa nuova, dopo quarant’anni di Tv chi guarda è più consapevole? «Difficile dirlo, credo che la cosa importante sia continuare a far capire la differenza tra realtà e finzione, un confine che nella percezione diventa sempre più labile: credo che sul tenere il punto sulla radice dei fatti ci sia della strada da fare». E.CHI.
La fiction, con la collaborazione dei delegati della famiglia
Quei tre giorni e quella diretta Tv che tenne l’Italia incollata al piccolo schermo è ora una fiction, Alfredino – Una storia italiana (regia di Marco Pontecorvo), in onda l’11 e il 12 giugno 2024 su RaiUno. La miniserie ha visto la collaborazione di tre procuratori delegati dai Rampi che verificassero la correttezza dei contenuti. Nessun compenso economico, inoltre, è stato percepito dalla famiglia. Nel cast un nutrito gruppo di attori interpreta i personaggi che vissero da vicino quella triste vicenda. A partire dalla madre, Franca Rampi, nei cui panni vedremo Anna Foglietta. Vinicio Marchioni, invece, interpreta Nando Broglio, il vigile del fuoco che provò a tenere compagnia e a motivare Alfredo durante quelle terribili ore, e Riccardo De Filippis è Angelo Licheri (1944-2021), “l’angelo di Vermicino”, ultimo a calarsi nel pozzo e a provare a salvare il bambino.
(Servizio uscito in occasione del 40° anniversario della vicenda su Famiglia Cristiana 23/2021)