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Gialunca Sciarpelletti: “Ero un maresciallo con il violino, ora porto il Belcanto italiano nel mondo”

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In questi giorni come ogni anno, dal 1993, Montréal ospita l’Italfest, un festival di cultura italiana, in cui si mescolano, arte, musica cucina, made in Italy, capace di accogliere centinaia di migliaia di visitatori nella regione francofona dal Canada che accoglie la seconda più grande comunità di origine italiana del Paese: circa 300mila persone, seconda solo a quella dell’Ontario.

Nella musica non può mancare il belcanto, marchio di fabbrica dell’Italia nel mondo, di cui Gianluca Sciarpelletti, tenore italo-americano, con una storia da film, reduce da un successo a Lima, presente il 17 agosto all’Italfest con un recital concerto in cui mescola arie d’opera e canzoni, si presta spesso a fare da ambasciatore.

La lirica è percepita come un simbolo dell’Italia nel mondo, è vero che c’è un rapporto diverso con questo genere di musica di qua e di là dall’Atlantico?

«Non per caso è entrata nel patrimonio dell’Unesco come bene immateriale, a significare che musica e arte rappresentano l’Italia nel mondo. Sicuramente dal lato americano dell’Atlantico si percepisce un fascino ancor maggiore: i discendenti degli italiani all’estero avvertono l’Italia come un Paese dei sogni, un concerto di musica italiana ha qui un quid di fascino in più. Ma vale per tutte le manifestazioni culturali e artistiche nel mondo. Siamo il Paese di Firenze, di Venezia, di Roma, da sempre esportiamo arte e cultura anche se qualche volta ultimamente dimentichiamo questa nostra grande singolarità e ricchezza».

Ha respirato musica in casa, i suoi genitori erano un tenore e un soprano che insegnavano al Conservatorio di Roma. Per questo si definisce “vecchia scuola”?

«I miei hanno avuto la fortuna di studiare con Mario Filppeschi e con Luigi Ricci, che è stato il ponte generazionale tra la vecchia scuola romana di canto di Antonio Cotogni (fine Ottocento), autore per la Ricordi di Variazioni, cadenze e tradizioni, un piccolo libro in cui si è appuntato tutte le cadenze e le tradizioni, a cominciare dal do del Trovatore, non scritte in partitura, ma entrate nella tradizione che tanto piacciono a chi ascolta musica lirica nel mondo. Ho avuto la fortuna di veder tramandata questa scuola che aveva la sua essenza nel recitar cantando, nella parola scolpita e comprensibile, nella combinazione tra voce e presenza scenica: non puoi cantare “t’amo” senza dare senso a quello che dici, limitarti a gridarlo. Sono cresciuto in una casa-museo con gli autografi di tanti musicisti, le partiture di Mascagni, la trilogia di Wagner con gli appunti autografi, le lettere di De Sabata…».

Mai avuto la tentazione di fuggire dalla musica in casa di due insegnanti, magari da adolescente?

«Da bambino direi che ho “subito” la musica, nel senso che essendo figlio di due cantanti sentivo continuamente cantare, studiare, e le cene con gli amici che erano Franco Corelli, Filippeschi, Anita Cerquetti puntualmente finivano nel canto con qualcuno che si metteva al pianoforte ad accompagnare. Quando ho iniziato a studiare violino al Conservatorio di Frosinone, finivo la mia ora di lezione, e poi mi fermavo tutto il pomeriggio ad aspettare mio padre per tornare a casa, e intanto mi ascoltavo 5-6 ore di lezione di canto maschile e femminile».

È questo che l’ha convinta a passare al canto?

«No, è stato tutto più tortuoso di così: io continuavo a studiare violino, ma a causa della grave malattia che colpì mia madre rimasi indietro con gli esami e non potei chiedere il rinvio per la leva obbligatoria che ancora c’era. Così al quinto anno ho lasciato il Conservatorio. Non volevo fare il militare semplice, quindi sono entrato prima in Polizia poi nei Carabinieri come allievo ufficiale. Divenne il mio lavoro: facevo il maresciallo dei Carabinieri nei reparti operativi all’antiterrorismo, e nel tempo libero studiavo: da maresciallo, però, ho poi completato il percorso musicale per una strada diversa da come l’avevo immaginata e intanto mi sono laureato in Scienze politiche a Siena, che aveva una convenzione con l’Arma per il riconoscimento di crediti del biennio accademico militare».

Ma non ci ha spiegato com’è arrivato dal violino al canto…

«Una storia buffa: mi ero portato il violino in caserma come compagno di vita, ogni tanto suonavo. Per tutti ero il maresciallo che suonava il violino. Un carabiniere che si sposava in Ciociaria mi chiese di suonare al suo matrimonio a Frosinone, una cosa in grande stile come è normale da quelle parti. Aveva già prenotato i musicisti, c’era l’organista, due ragazze che dovevano cantare. Entrai in chiesa, mi presentai a loro e spiegai che ci facevo lì: sono Gianluca, un amico dello sposo, mi dovrei inserire nella vostra performance perché vorrebbe che suonassi il violino alla cerimonia. Mi dicono che avrebbero cantato l’Ave Maria di Schubert. “Ah bene la conosco benissimo”. Chiesi di fare una prova per prendere i tempi, perché da tanto non la suonavo. L’organista iniziò con l’introduzione, gli arpeggi, ma qualcosa mi suonava strano. Feci la prima nota, il si bemolle, e mi parve stonata, pensai di avere il violino scordato ma non lo era. L’organista mi spiegò che le cantanti l’abbassavano di tre toni. Alla prima prova venne fuori una versione che sapeva un po’ di musica country, diversissima dall’Ave Maria che avevo ascoltato infinite volte da bambino. Spiazzato, finita la prova, rimasto solo con l’organista e gli chiesi di suonarmi la tonalità originale, non quella trasportata e, io, in modo del tutto spontaneo come fossi stato sotto la doccia, iniziai a cantarle. Cominciarono a dire che dovevo cantarla io e finì che all’offertorio me la cantai e me la suonai da solo. I due sposi che avevano pagato le due ragazze alla voce maschile si voltarono verso di me. Alla fine durante il pranzo una processione di gente che mi chiedeva di replicare al matrimonio del fratello, del cugino, della figlia… Mi son detto: mah, si vede che ho cantato bene. Io che mai lo avevo fatto. Tornato in caserma chiamai mio padre: “Come è andata?”. Bene, ah sai, ho pure cantato…”. Non glielo avessi mai detto».

La prese male?

«Di più. Mi fece nero: “Tu non hai mai cantato, mai studiato: a Frosinone poi dove ho insegnato tanti anni tu ti metti a fare il fenomeno da baraccone, che figure mi fai fare. Penseranno che questa è la mia scuola”. Quasi mi attaccò il telefono e non ci parlammo per settimane. Poi lo sposo tornò in caserma dalla luna di miele con una Vhs con un video professionale della cerimonia, un po’ preoccupato lo riguardai e non mi parve che la mia performance fosse stata così male, forse in tutte le ore passate da uditore involontario a lezione da mio padre avevo imparato qualcosa. La mandai a mio padre. Mi richiamò scusandosi, disse che con mamma avevano sentito la registrazione e si scusò. Quando tornai a Roma la prima vera lezione di canto: un’audizione in piena regola. Poi cominciò un discorso: se torni a Roma, se magari cambi idea e non sei sicuro del lavoro che fai, magari ti prendi il complemento inferiore che serve a insegnare alle scuole medie – allora era così – ti fai un piano B. Ho iniziato scherzando, preso il diplomino privato a Latina, poi mi sono appassionato, sono andato da Osvaldo Nicolosi, il pianista di mio padre, e gli ho chiesto di aiutarmi a preparare il programma per l’ammissione al Conservatorio senza dire niente a mio padre. Avevo fatto domanda al Santa Cecilia. Sono entrato a pieni voti e a ogni esame una situazione ansiogena, c’era mezzo Conservatorio a farmi sentire sotto esame due volte a causa del cognome, forse mi sono tolto lì la paura di cantare in pubblico. Prima di diplomarmi ho vinto il concorso internazionale Marcinelli a Orvieto: si vinceva anche un debutto. È cominciata così».

È vero che la paura del palcoscenico non passa mai? «Sì, anche se la vivo bene: è una tensione positiva, che mi fa tenere la concentrazione».

C’è un ruolo, un personaggio cui è legato più di altri?

«Amo molto Verdi, ho un legame speciale con Il ballo in maschera e, in particolare, con il personaggio di Riccardo, il mio primo ruolo». Che come il primo amore non si scorda mai.





Dal sito Famiglia Cristiana

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