Nevianonline.it
Sito ufficiale della Parrocchia Matrice San Michele Arcangelo. Neviano Lecce.

Francesco, la grande eredità della diplomazia spirituale

Francesco ha avuto una precisa consapevolezza del suo compito nel contesto internazionale. Il suo modo di vivere questo impegno si può sintetizzare nel gesto di accasciarsi la sera in cappella meditando sulla giornata, un momento in cui il potere papale si è interrogato, umiliandosi di fronte a Dio

Antonio Spadaro – Città del Vaticano

Il 9 novembre 1989 cadeva il Muro di Berlino. Da quel giorno migliaia di berlinesi demolirono quel simbolo che li aveva tenuti in ostaggio per quasi trent’anni. Quella è una data emblematica del tramonto dei totalitarismi. Una nuova epoca sembrava sorgere, segnata dalla globalizzazione. Eppure, essa ha oggi i tratti dell’indifferenza e del conflitto, come spesso Papa Francesco ha ripetuto. A fronte di un muro crollato, nel mondo ne sono sorti tanti altri. Il Pontefice, parlando a un gruppo di gesuiti, non ha usato mezzi termini: «Ci sono muri che separano persino i bambini dai genitori. Mi viene in mente Erode. E per la droga invece non ci sono muri che tengano».

La Chiesa come ospedale da campo

Quando Francesco nell’intervista che gli feci nel 2013 parlò della Chiesa come «ospedale da campo dopo una battaglia», non intendeva usare una bella immagine, retoricamente efficace. Quel che aveva davanti agli occhi era già uno scenario mondiale da «guerra mondiale a pezzi» che nel febbraio 2022, con l’invasione russa dell’Ucraina, ha assunto i tratti insanguinati di una sfida all’ordine mondiale internazionale fino alla minaccia dell’atomica. La crisi globale, in realtà, prende varie forme e si esprime in conflitti, dazi, fili spinati, crisi migratorie, regimi che cadono, nuove alleanze minacciose e vie commerciali che aprono la strada a ricchezza, ma anche a tensioni. Francesco ha costruito mappe di queste ferite aperte e sanguinanti nei suoi vari discorsi al Corpo diplomatico, e non solamente in queste occasioni.

Cristo al centro del mondo

Difficile giudicare quale sia l’aggettivo più appropriato — e quale il meno — tra quelli che i commentatori hanno attribuito a Papa Bergoglio e al suo ruolo nel campo della politica internazionale. La gamma si estende dal «rivoluzionario» stupito e ammirato di Eugenio Scalfari alle numerose e poco bonarie definizioni di «marxista» o «populista», fino allo scetticismo che ritiene irrilevante l’azione della Santa Sede a livello internazionale. Per Francesco questo conflitto di interpretazioni non è sembrato un problema e, con grande concretezza, ha invece lasciato intendere quanto sia importante la diplomazia vaticana creando di sana pianta una nuova sezione — la terza — della Segreteria di Stato dedicata ai nunzi, cioè ai rappresentanti diplomatici della Santa Sede nei paesi con i quali essa intrattiene regolari rapporti. La delibera con la quale il Pontefice ha creato questa nuova sezione è contenuta in una lettera pontificia al segretario di Stato, cardinale Pietro Parolin, scritta il 18 ottobre 2017, nella quale il Papa ha espresso la convinzione di dover assicurare «un più sollecito accompagnamento» a quanti servono nel ruolo diplomatico della Santa Sede, dimostrando «l’attenzione e la vicinanza del Papa» al personale del ruolo diplomatico. Quando Francesco interveniva in prima persona nel dibattito della politica internazionale lo ha sempre fatto con forza e con modalità innovative che hanno generato, a volte, un senso di stupore. Per qualcuno vero sconcerto. Ho avuto modo di porgli una domanda sui suoi progetti in ambito ecclesiale: «Lei vuole fare la riforma della Chiesa?», domandai. La sua risposta fu candida e diretta: «No». E proseguì: «Voglio solo mettere Cristo sempre più al centro della Chiesa. Poi sarà Lui a fare le riforme necessarie». Anche nel contesto politico internazionale Francesco ha voluto fare la stessa cosa: mettere Cristo al centro del mondo. Bergoglio è stato essenzialmente un leader spirituale cristiano. E solamente in quanto tale ha potuto parlare di politica e diplomazia.

Essere “rivoluzionari”

Francesco ha avuto una precisa consapevolezza del suo compito nel contesto internazionale, una consapevolezza bruciante maturata nel tempo. Il suo modo di vivere questo impegno si può sintetizzare nel gesto di accasciarsi la sera in cappella meditando sulla giornata, un momento in cui il potere papale si è interrogato, umiliandosi di fronte a Dio. Ma è proprio in questo gesto di umiltà, nel farsi da parte per lasciare a Cristo il centro della scena, che Bergoglio è diventato davvero «rivoluzionario». Questa parola — si faccia attenzione — ha assunto per lui connotati specifici; la si fraintenderebbe intendendola nel senso in cui compare nei dizionari della politica. Ciò che intendeva realizzare ha un’evidente radice spirituale e mirava a favorire l’opera di Dio nella storia. Questo di per sé è rivoluzionario. «Un cristiano, se non è rivoluzionario, in questo tempo, non è cristiano!», spiegò nei primi mesi di pontificato. «Deve essere rivoluzionario per la grazia! Proprio la grazia che il Padre ci dà attraverso Gesù Cristo crocifisso, morto e risorto, fa di noi rivoluzionari, perché — e cito Benedetto xvi — “è la più grande mutazione della storia dell’umanità”. Perché cambia il cuore».

Il mondo come cantiere di Dio

Il suo pontificato è stato «profetico» perché ha conferito al movimento del tempo il suo rapporto a Dio, gli ha dato un significato nella relazione con il trascendente; la sua rilevanza politica è indiscutibile ma troppo spesso incompresa nella profonda connessione tra politica e spiritualità, appiattita dalla prospettiva «mondana» di cosa sia un leader e di quali siano le sue caratterizzazioni. Francesco, da credente, sapeva che il mondo è il cantiere di Dio e il suo compito, da pontefice, è stato quello di accompagnare i processi storici più che di occupare spazi di potere. In questo senso ha saputo attraversare tempi di crisi. Per il Papa il termine «crisi» non ha assunto una connotazione di per sé negativa. E, se c’è una parola che dice in sintesi la situazione globale che il mondo sta sperimentando oggi, questa è «crisi». Nel suo discorso alla Curia romana in occasione della presentazione degli auguri per il Natale 2020, Francesco l’ha evocata ben quarantasei volte. Nel Natale della pandemia, ha detto il Papa, «la crisi ha smesso di essere un luogo comune dei discorsi e dell’establishment intellettuale per diventare una realtà condivisa da tutti».

L’importanza della crisi

Francesco ha voluto mettere in evidenza il significato e l’importanza dell’essere in crisi. Ha riconosciuto innanzitutto che «la crisi è un fenomeno che investe tutti e tutto. È presente ovunque e in ogni periodo della storia, coinvolge le ideologie, la politica, l’economia, la tecnica, l’ecologia, la religione». Dunque, è una esperienza umana fondamentale ed è «una tappa obbligata della storia personale e della storia sociale». Non la si può evitare e i suoi effetti sono sempre «un senso di trepidazione, angoscia, squilibrio e incertezza nelle scelte da fare». Francesco ha avuto una visione evangelicamente dialettica della storia: è come se avesse detto che se non c’è crisi non c’è vita. In questo senso, però, la crisi evoca la speranza. Da qui il suo messaggio: in tempi di crisi occorre essere realisti e «una lettura della realtà senza speranza non si può chiamare realistica. La speranza dà alle nostre analisi ciò che tante volte i nostri sguardi miopi sono incapaci di percepire». Da qui la maturazione dell’idea del Giubileo della Speranza. Da qui la sua visione della politica internazionale, sempre aperta ad affrontare le crisi. L’ermeneutica di Francesco è stata fondata sul tempo, sull’«apertura al futuro». Ed è proprio questo aggetto sul futuro che ha plasmato la sua «diplomazia spirituale». Perché il futuro non può che essere «escatologico»: non è solo ciò che verrà dopo oggi ma la fine dei tempi. Per lui, uomo di fede, c’è Dio che muove il processo storico e spinge «con gemiti inesprimibili», direbbe san Paolo, a mettere in atto ogni possibile sforzo per puntare all’«integrazione». Che non è né mai può essere un puro e semplice compromesso diplomatico.

Un nuovo ruolo globale del cattolicesimo

È dunque per questo che, sotto il profilo diplomatico, Francesco si è assunto la responsabilità di posizioni rischiose. La tradizionale cautela diplomatica si è sposata in lui con l’esercizio della parresia, fatta di chiarezza e talvolta di denuncia. Le prese di posizione contro il capitalismo finanziario speculativo, il costante riferimento alla tragedia dei migranti, «vero nodo politico globale», la memoria del «genocidio» armeno. Gli echi persistenti che hanno generato sono quelli che provengono da una «voce che grida nel deserto», per citare Isaia, il profeta biblico. Ma il Papa della misericordia non ha esitato a gridare «maledetti», durante una messa a Santa Marta, a coloro che fomentano le guerre e lucrano su di esse. Né ha esitato a definire «ignobile» la situazione a Gaza né a evocare il martirio nell’aggettivare la nazione ucraina. Francesco si è confrontato con il nuovo ruolo globale del cattolicesimo nel contesto odierno. E in questo contesto la sua è stata essenzialmente una visione spirituale ed evangelica dei rapporti diplomatici che — in un suo incontro privato il 3 maggio 2018 all’Accademia ecclesiastica — ha definito «diplomazia delle ginocchia», cioè radicata e fondata nella preghiera.



Dal sito Vatican News

Visualizzazioni: 0
Lascia una risposta

L'indirizzo email non verrà pubblicato.

Questo sito web usa i cookies per migliorare la vostra esperienza di navigazione. Daremo per scontato che tu sia d'accordo, ma puoi annullare l'iscrizione se lo desideri. Accetto Leggi altro

Privacy & Cookies Policy