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Francesco e i carcerati: l’ultima carezza del Papa ai dimenticati

Tre giorni prima di Pasqua. Quattro giorni prima di morire. Come era diventata ormai una sua tradizione del Giovedì Santo, anche quest’anno papa Francesco ha voluto “lavare i piedi” delle persone detenute. Metaforicamente, perché le forze non gli permettevano di presiedere la solenne celebrazione della messa “In coena Domini”. Così, il 17 aprile si è recato, quasi senza farsi annunciare, a Regina Coeli, il carcere di primo ingresso di Roma, a due passi dal Vaticano. C’era già stato nel 2018. Un incontro anticipato appena il giorno prima, e che ha coinvolto 70 detenuti. Del resto, proprio la popolazione carceraria di Regina Coeli aveva inviato a papa Francesco, nei giorni del suo ultimo ricovero al Gemelli, lo scorso mese di marzo, una lettera di auguri (che Famiglia Cristiana aveva pubblicato in esclusiva), nella quale si invitava il Pontefice a visitare il penitenziario di via della Lungara. E papa Francesco ha raccolto l’invito.

Per Francesco, recarsi in carcere è stata una consuetudine del suo pontificato: nel carcere minorile di Casal del Marmo, il Giovedì Santo del 2013, soltanto due settimane dopo l’elezione al soglio pontificio, celebrò la messa e lavò i piedi a dodici giovani detenuti, tra cui due ragazze, una cristiana e una musulmana, lasciando un’immagine potentissima: lui, chino su persone che hanno commesso reati e che anche grazie a questo gesto di vicinanza umana e spirituale possono ritrovare la propria dignità. Ma se la Misericordia di Dio è per tutti (“Chi sono io per giudicare?”, un’altra delle affermazioni che amava ripetere), allora non poteva mancare la carezza e la consolazione del successore di Pietro anche in questo angolo di mondo, tra sbarre e blindi, quasi sempre dimenticato dalle cronache.

Quello tra il Papa venuto dalla fine del mondo e i detenuti si è manifestato fin da subito come un legame particolare. “Ogni volta che entro in un carcere, mi domando perché voi e non io”, è la celebre frase che ripeteva sempre, nelle sue numerose visite nei penitenziari italiani. E, con questo, voleva significare che la caduta e l’errore sono una possibilità per ognuno di noi; che chi commette un reato è gente come noi. Come lui. Lui che li ha “accarezzati” fino alla fine, i detenuti: ai suoi funerali, accanto ai capi di stato e di governo, c’era una delegazione dal carcere di Rebibbia, l’istituto di pena dove il 26 dicembre 2024 papa Francesco ha voluto aprire una Porta Santa del Giubileo della Speranza (la prima volta nella storia dei Giubilei). Inoltre, alcuni di loro erano presenti a Santa Maria Maggiore, con un permesso speciale da parte del magistrato di sorveglianza. Molti di più, migliaia, si sono radunati davanti alla tv delle carceri italiane, per seguire i funerali. E a favore dei ragazzi reclusi nel carcere minorile di Casal del Marmo a Roma, il Pontefice argentino ha lasciato 200mila euro, praticamente tutti i suoi soldi personali. 

Contro l’ergastolo, che definì una “pena di morte nascosta” nel discorso rivolto ai giuristi dell’Associazione internazionale di diritto penale, nel 2014, Francesco si è espresso più volte (ribadendo due principi: la cautela in poenam e il primatum principii pro homine). Del resto, pochi mesi dopo la sua elezione, a luglio 2013, abolì la reclusione a vita in Vaticano, e contemporaneamente introdusse il reato di tortura e sancì il “giusto processo”. Negli anni, ha parlato di persone detenute come di capri espiatori, di cautela nella pena, di diritto penale razzista, senza moralismo o pietismo: semplicemente, richiamando la Costituzione e il senso della dignità umana che è di tutti, anche di chi si è macchiato di un reato gravissimo. Nei primi anni del suo pontificato, aveva ricevuto in udienza i detenuti del carcere di Opera, che producono le ostie nel progetto “Il senso del pane”, della Fondazione Casa dello Spirito e delle Arti, presieduta da Arnoldo Mosca Mondadori. Proprio a testimoniare, appunto, che la speranza deve sempre avere l’ultima parola. Del resto, rivolgendosi nel 2019 all’Associazione Internazionale di Diritto Penale, Bergoglio aveva messo in guardia contro la deriva di chi vede nella pena “l’unica medicina per ogni male sociale”: “Negli ultimi decenni”, aveva detto, “si è creduto di curare malattie diverse con lo stesso farmaco: la repressione. Non è giustizia, è pigrizia. È la resa di chi preferisce fabbricare capri espiatori anziché costruire comunità”.

Papa Francesco ha lanciato una sfida: trasformare il carcere da luogo di maledizione, punitivismo e vendetta, a spazio di redenzione. E anche in questo caso, oltre le parole ci sono state le azioni: con la bolla “Spes non confundit“, ha chiesto ai governi di concedere ai detenuti, durante questo Giubileo della speranza, il condono delle pene. Lo aveva già chiesto in occasione del Giubileo straordinario della Misericordia, nel 2016. Ad accogliere l’invito del Pontefice, furono però soltanto Cuba, Paraguay e Mozambico. Il 6 novembre di quell’anno, durante il Giubileo dei detenuti che raccolse a San Pietro gruppi di tutte le carceri italiane, Francesco ricordò: “Tutti abbiamo la possibilità di sbagliare: tutti. In una maniera o nell’altra abbiamo sbagliato. E l’ipocrisia fa sì che non si pensi alla possibilità di cambiare vita: c’è poca fiducia nella riabilitazione, nel reinserimento nella società. Ma in questo modo si dimentica che tutti siamo peccatori e, spesso, siamo anche prigionieri senza rendercene conto”.

C’è chi ha affermato che il monito del Vangelo di Matteo (“Ero carcerato e siete venuti a trovarmi”) ha trovato in Bergoglio non una semplice eco, ma un “programma di governo”. Perdono, speranza, attenzione alla persona e dignità sono state la cifra del suo pensiero sul carcere. Ma non solo. In riferimento alla funzione della pena, sempre nell’audizione del 2019, ha proposto il passaggio da una giustizia basata sulla retribuzione a una giustizia basata sulla riparazione, il cui modello è l’icona evangelica del Samaritano: “Senza pensare a perseguitare il colpevole perché si assuma le conseguenze del suo atto”, aveva spiegato, “assiste colui che è rimasto ferito gravemente sul ciglio della strada e si fa carico dei suoi bisogni”. È la sintesi dei percorsi di giustizia riparativa, introdotta soltanto da pochi anni, grazie all’allora ministro Marta Cantarbia, nell’ordinamento italiano. Che diventino realtà in tutte le carceri italiane sarebbe il più bel modo per commemorare papa Francesco.

 

 

 





Dal sito Famiglia Cristiana

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