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Due o tre cose (gravi) che la Meloni non ha detto sul Manifesto di Ventotene

La storia dovrebbe essere una materia nobile, da trattare con il riguardo che si riserva agli oggetti fragili e preziosi. Giorgia Meloni, invece, l’ha maneggiata in Parlamento come un martello pneumatico: grossolana, rumorosa, senza troppi riguardi per la verità eil contesto. Il Manifesto di Ventotene – esibito nel raduno pro Europa di sabato scorso e allegato al quotidiano Repubblica – , «costituisce una delle espressioni più significative del sogno europeista che ha animato tutta la resistenza al fascismo e al nazismo nei diversi Paesi europei e che propugnava un’Europa libera e unita», come ha spiegato lo storico Agostino Giovagnoli. Ed è in questa chiave che va letto. Per questo il ripudio in toto della premier del Manifesto è inaccettabile, non solo perché, come ha scritto Antonio Carioti sul Corriere della sera, la sua interpretazione sovranista «è frutto di una lettura smozzicata» ma anche perché il responsabile di un’istituzione come il governo non può rinnegare una dei documenti che hanno portato all’Unione europea, di cui lo Stato italiano è uno dei membri fondatori.

Il Manifesto di Ventotene va contestualizzato, dunque non va preso come oro colato ma nemmeno disconosciuto come ha fatto Giorgia Meloni. Il contesto drammatico e sconcolgente è quello dell’Italia fascista del giugno 1941, in piena Guerra Mondiale, che aveva mandato al confino sull’isola di Ventotene Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni. I tre militanti antifascisti (avevano conosciuto l’esperienza del carcere) avevano abbozzato una prima espressione di un progetto a quel tempo visionario, quello di un’Europa federalista e antifascista. La Meloni parla di «auspicata dittatura» del proletariato del documento, ma in realtà già nel dopoguerra Spinelli, che fondò insieme a Rossi il Movimento federalista europeo, aveva aggiustato il tiro e gli impeti rivoluzionari parlando di “movimento europeo trasversale” delle diverse forze antifasciste, come Giustizia e Libertà, sottolineando anche le forzature classiste di quella carta, che la leggenda voleva scritta su un pacchetto di sigarette.

Spinelli era stato comunista in gioventù ma ne era uscito condannando il terrore staliniano (per poi ritornare nel Pci di Berlinguer, anzi nella contigua Sinistra indipendente). Rossi e Colorni erano membri del movimento socialista Giustizia e Libertà, fondato dai fratelli Rosselli. È vero, si tratta di una costruzione laica nella sua essenza, che risente addirittura di ingenue spinte rosseauiane, come la proposta di limitare, se non abolire, la proprietà privata, impedire monopoli privati e cancellare il Concordato tra Stato e Chiesa in quanto prodotto della cultura fascista («il Concordato con cui in Italia il Vaticano ha concluso l’alleanza col fascismo – vi si legge –  andrà senz’altro abolito per affermare il carattere puramente laico dello Stato, e per fissare in modo inequivocabile la supremazia dello Stato sulla vita civile»).

Alcune delle idee forti contenute nel documento hanno influenzato il processo d’integrazione europea, portando, come detto alla nascita delle istituzioni che oggi compongono l’Unione. Ma quella del Manifesto non è l’unica elaborazione politica che ha contribuito alla nascita dell’Unione. Alcide De Gasperi, per esempio, immaginò la Comunità Europea alla luce della dottrina sociale della Chiesa, così come Jean Monnet e Konrad Adenauer ne fecero una costruzione di ispirazione cristiano-sociale. Il loro instancabile lavoro intriso di passione politica portò, 18 aprile 1951, alla fondazione della CECA, primo mattone dell’unione europea, la Comunità europea del carbone e dell’acciaio. Non si tratta di un accordo prettamente commerciale. Quell’accordo fu stipulato proprio per mettere fine alle guerre sanguinose che fin dai tempi del conflitto franco-tedesco di Sedan del 1870 e per tutto il secolo scorso ruotavano intorno a quelle risorse, così importanti per fabbricare armi e materiale bellico. Risorse che erano presenti in terre contese come il bacino della Ruhr, o della Lorena, o della Saar o ancora della Slesia e del Donbass (zona ancora oggi riemersa dagli abissi della storia ).

Il Manifesto, invece, rimane laico, più radicale nei suoi postulati, ma egualmente intriso di finalità ireniche e conciliatrici che ci hanno permesso di vivere in pace per 80 anni. La lettura che però ha resistito alla prova del tempo è quella di un progetto politico capace di dare all’Europa una struttura comune, di impedire il ripetersi delle tragedie del Novecento. Nessuno potrà mai mettere in dubbio che quella carta sia un documento fondativo degli ideali di quell’Unione che Giorgia Meloni è chiamata a servire e che quegli uomini (tra l’altro il terzo estensore, Eugenio Colorni, morì 35 enne pochi giorni prima la liberazioen di Roma, trucidato dalla banda Koch) restino imprescindibili precursori dell’Europa.
 

 





Dal sito Famiglia Cristiana

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