Don Vinicio Albanesi: “Ho trovato il centro della vita in chi è ai margini”

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«La conserviamo in tanti, nel portafoglio, accanto al tesserino dell’Ordine. È la tessera di “Giornalista Nip”, Not important person. Per un’informazione sui forti che tiene conto dei deboli». In più di 20 anni il Coordinamento nazionale delle Comunità di accoglienza (Cnca) ha «addestrato centinaia di giornalisti. È stato molto bello, soprattutto i primi dieci anni, quando abbiamo coinvolto testate nazionali, Rai, grandi network».

Don Vinicio Albanesi, 79 anni, è stato la mente e l’anima di un progetto che attraverso corsi di formazioni, seminari e amicizia personale, ha aiutato ad aprire nuovi orizzonti: Redattore sociale è stato uno slogan e un’esperienza, tradotto in un’agenzia di stampa con sede a Capodarco, in provincia di Fermo nelle Marche, fondamentale per chi vuole conoscere e scrivere di territori “marginali” andando oltre gli stereotipi e il sensazionalismo. Un patrimonio di conoscenza che a fine anno rischia di chiudere, per motivi di ordine prettamente economico, poiché il calo dei ricavi derivanti dagli abbonamenti si sommano alla perdita di importanti committenze. «Se non ci saranno fatti eccezionali ci sarà prima la cassa integrazione e poi la chiusura», commenta Albanesi.


Don Vinicio, cosa è stato Redattore sociale in questi anni?


«Quando abbiamo iniziato, il cosiddetto “sociale” andava a finire in cronaca nera. Abbiamo fatto un’opera di informazione di linguaggio e poi di apertura ai più fragili. Parlo di milioni di persone: giovani, adolescenti, anziani, coloro che oggi sono definiti “incapienti”, cioè chi ha un reddito di 6-7 mila euro, non sufficiente. Quando abbiamo iniziato erano nascosti, ignorati o disprezzati. Per esempio, i disabili viaggiavano sui carri merci e cinema, teatri, spiagge non erano accessibili. Oggi un po’ di cose sono cambiate. E lo stesso dicasi per la psichiatria, la tossicodipendenza, il mondo Lgbt, quello delle donne maltrattate, dei bambini soli… Sono mondi che abbiamo spiegato e fatto conoscere. E questo ha portato un progresso di civiltà, cultura e rispetto».

Come vede la nostra società?

  

«È divisa in tre gruppi: i ricchi che si arricchiscono sempre di più, senza ritegno e sensi di colpa; la massa, una classe media con una parte che tenta di diventare ricca e una che si arrangia; e infine una terza area di chi va verso la povertà e viene ignorato anche dalla politica. Su questo deve lavorare il prossimo governo: affrontare i grossi problemi di povertà che abbiamo. Un’altra priorità è l’ambiente».


Anche le Marche sono state sconvolte da tragici episodi di razzismo. Pensa che questa sia una emergenza nel nostro Paese?


«Al di là della specificità dei due episodi che hanno coinvolto Fermo e Civitanova, sicuramente nel nostro Paese c’è diffidenza e ostilità verso gli stranieri: nei confronti di persone africane tale ostilità è ancora più forte e incomprensibile. Più che di razzismo si ragiona sull’utilità degli immigrati: nessuno ha mai protestato contro le “badanti”, contro quanti fanno mestieri umili e faticosi, a basso prezzo. Si può parlare di calcoli interessati: i piccoli paesi vanno “a caccia” di bambini stranieri per non essere costretti alle pluriclassi o alla chiusura delle scuole. Invece che di razzismo, parlerei di egoismo: nascosto, furbo e generale».

I mondi della povertà sono il suo mondo. Non si è mai pentito?

  

«No, nessun rimpianto. Dall’esterno potrebbe sembrare una scelta che impone grande sacrifici, ma non è così. Quando studiavo alla Gregoriana mi proposero di entrare all’Accademia pontificia per diventare nunzio, sponsorizzato dal potentissimo cardinal Benelli, che era sostituto della Segreteria di Stato. Mi sono chiesto se ero capace di fare quella cosa lì, di rispettare le regole della diplomazia, e conclusi che non era la mia strada. Nel frattempo avevo conosciuto don Franco Monterubbianesi che nel Natale del ’66 aveva avviato a Fermo la Comunità di Capodarco, e mi chiese di dare una mano alla sede di Roma. Aveva sogni che sembravano irrealizzabili: i disabili che potevano avere figli, sposarsi, vivere da soli. Nel frattempo frequentavo la Pro Deo, una scuola di giornalismo che durava tre anni. Avevo capito che le rivoluzioni si fanno con le idee e con i fatti. Cioè bisogna dimostrare che queste idee sono realizzabili. Negli anni ’80 abbiamo fondato il Coordinamento nazionale comunità di accoglienza (Cnca): io che venivo da un piccolo paese delle Marche ho conosciuto anche persone importanti. Agendo con una finalità nobile non ero né prono né intimorito. Con i politici, con gli imprenditori, i giornalisti ho avuto sempre un rapporto molto franco. I mondi marginali sono tanti ma chiedono tutti la stessa cosa, una vita migliore, e ho sempre lavorato per questo. Così ho scoperto che chi fa il bene riceve il bene. Quando crei una rete positiva poi ti dà delle risposte, ti indica delle strade, e questo lo abbiamo sperimentato sempre».


Vivere con i “marginali” il suo ministero è stata quindi una scelta precisa?


«Mi sono detto che un prete può fare tre cose: o si dedica a una parrocchia; o studia; o fa un’azione sociale. La diocesi di Roma, che è tanto santa ma non ha preti, mi aveva offerto delle parrocchie. Ma ho scelto di fare opera sociale, senza rivendicare nulla nei confronti della Chiesa. Ho incontrato anche gente capace, penso alla Caritas, a don Roberto Sardelli (il “prete dei baraccati” di Roma, ndr), all’abate Giovanni Franzoni (l’ex monaco benedettino fondatore della Comunità di San Paolo, una comunità di base sempre a Roma, ndr), una serie di preti che addirittura si erano bruciati nel dare un segno sociale nella Chiesa. Io non ho mai partecipato a una protesta, perché penso che l’unica strada sia trovare soluzioni che aiutino la gente a stare meglio. Non possiamo salvare il mondo ma fare piccole esperienze che danno sollievo a un po’ di persone e sono un modello».

Ma perché ha scelto di diventare prete, tra l’altro giovanissimo?

  

«Non l’ho cercato, ma il parroco e i maestri mi hanno detto che ero adatto. I genitori erano contenti. In questo ho visto la mano di Dio. Ho resistito alle prove atroci del seminario e sono andato avanti».


Ha raccontato di aver subito abusi proprio in seminario, ma di non sentirsi una vittima.


«I vigliacchi erano loro, gli adulti, presunti educatori, indegni. In questi 50 anni ho guardato al sacerdozio con uno spirito aperto, solare, bello. Il messaggio di Cristo è infinitamente positivo. Lui ha difeso i bambini, la samaritana, il paralitico… e ha guarito. Sono costoro che lo hanno reso immondo, che hanno usato le sue parole e hanno procurato la morte».

Oggi come guarda alla strada percorsa?

  

«La nostra vita è una specie di fiume che nasce sulla montagna, nemmeno lo vogliamo noi, e poi scende verso valle, una strada segnata dalla Provvidenza. Che non è la capacità di darti delle risposte ma di indicarti il modo in cui puoi aiutare, puoi dare un senso alla tua vita»


Ci sono persone che hanno segnato la sua vita?


«I Gesuiti. Alla Gregoriana, dove ho studiato, ho incontrato dei geni, ma con una vita talmente umile e semplice da lasciarti senza respiro. Avevano camere singole con lavandini in camera e bagni comuni. Ti dicevano: “Qualunque cosa tu voglia fare, falla bene”. Ricordo che ero uno studente lavoratore, presso una parrocchia di Roma. In difficoltà per un esame andai a parlare con il professore: “Frequentare l’università non è obbligatorio”. Alla fine ho preso la licenza in Teologia e Diritto canonico. Nella mia diocesi da 40 anni nessuno aveva studiato Diritto. E sono diventato presidente del Tribunale delle nullità per la Regione picena».

Una Parola che la accompagna?

  

«I capitoli 5-6-7 del Vangelo di Matteo, è il sommario della vita, le Beatitudini. Nella mia stanza ho un manifesto: “È felice chi nelle relazioni riesce a esser umile, mite, consolatore, giusto… sono le beatitudini”. Il cristianesimo ti dà la possibilità di realizzare la tua vita e ti dà la libertà. Questo per l’uomo è tutto».


Immerso nella vita


Don Vinicio Albanesi è nato il 20 settembre 1943 a Campofilone, in provincia di Fermo nelle Marche, da una famiglia operaia. Sacerdote dal 1967, ha studiato Teologia alla Gregoriana, prendendo la licenza in Diritto Canonico. Ha conseguito il diploma di giornalismo all’Università internazionale degli studi sociali Pro Deo. Con don Franco Monterubbianesi ha aperto nel 1971 la comunità di Capodarco a Roma e nel 1974 ha fatto ritorno a quella di Fermo (fondata del 1966 sempre da Monterubbianesi). Insieme ad altri sacerdoti, nel 1980 ha fondato il Coordinamento nazionale comunità di accoglienza (Cnca) di cui è stato presidente dal 1990 al 2002. Nel 1994 è diventato responsabile della Comunità generale di Capodarco, che federa oggi 14 comunità residenziali sparse in 10 Regioni. Nel febbraio del 2001 ha promosso la nascita dell’agenzia giornalistica Redattore sociale. Attualmente è anche parroco di San Marco alle Paludi, nella diocesi di Fermo.

CHI É

Età 79 anni

Professione Sacerdote e giornalista

Famiglia Viene da una famiglia operaia

Fede Cresciuta stando sempre accanto ai più poveri





Fonte Articolo

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