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Dietro le sbarre, volti e speranza. A San Vittore la povertà ha un nome e un cuore



Un momento della presentazione, all’interno della casa circondariale di San Vittore.

Dietro le sbarre non ci sono solo colpe e condanne. C’è la povertà. Quella vera. Quella che si chiama solitudine, malattia psichiatrica, assenza di una casa, dipendenza, mancanza di identità, abbandono. È questo il cuore pulsante del libro I volti della povertà in carcere, in uscita il 25 novembre per le Edizioni Dehoniane Bologna, frutto del lavoro congiunto di Rossana Ruggiero e Matteo Pernaselci.

Il volume – illustrato ieri all’interno della casa circondariale di San Vittore alla presenza di don Dario Acquaroli, cappellano del carcere di Bergamo – nasce da un’esperienza vissuta per oltre un anno in questo istituto. Fotografie in bianco e nero – crude e poetiche – accompagnano testi altrettanto intensi, che danno voce ai volti dietro le celle. «Non sono numeri, né matricole, e neppure il reato commesso. Sono persone», scrive nella prefazione il cardinale Matteo Maria Zuppi, che parla del carcere come del “purgatorio” della nostra società: «Il contrario dell’inferno non è il limbo, ma la speranza».

Il volume è una testimonianza vibrante che scuote coscienze e pregiudizi. Attraverso le parole e gli scatti di chi ha vissuto l’esperienza del carcere come reporter e come testimone, i lettori incontrano storie come quella di Berrich, tunisina, madre, ex infermiera e mediatrice culturale, finita dietro le sbarre per una vicenda segnata da tradimenti e violenza. O quella di Pavell, giovanissimo rumeno cresciuto in Italia, con un passato di comunità e un presente in bilico tra la passione per il calcio e la voglia di incidere un disco.

Ma I volti della povertà in carcere non è solo un libro. È una chiamata all’ascolto. «Non andiamo in carcere per giudicare – ricorda il cardinale Zuppi – ma per incontrare, per portare un aiuto e affrontare i problemi concreti». E a San Vittore, come racconta Giacinto Siciliano, direttore della casa circondariale, questi problemi sono sotto gli occhi di tutti: tanti detenuti hanno disturbi psichiatrici, molti vivono senza identità né famiglia, e spesso il carcere è l’unico rifugio in cui trovano finalmente ascolto, cura, persino speranza.

«San Vittore – racconta Siciliano – è quello che la strada porta dentro. Stranieri, giovani con dipendenze, donne vittime di violenza. È la risposta ai problemi del fuori». Da qui nasce anche l’idea del laboratorio delle ostie, nato con la Fondazione Casa dello Spirito e delle Arti: un’attività apparentemente semplice che interroga l’anima. «Nel silenzio di quel lavoro – spiega – c’è una spiritualità che lascia il segno».

Il progetto è stato sostenuto anche dalla Società San Vincenzo de’ Paoli, dalla Fondazione Casa Tra Noi, da L’Osservatore di Strada e da L’Osservatore Romano. L’impronta pastorale è evidente: nelle storie si avverte l’eco dell’Esortazione Evangelii Gaudium, quando papa Francesco invita a «correre il rischio dell’incontro con il volto dell’altro» (EG 88). E le parole di Antonietta, una detenuta pugliese, madre di quattro figli, sintetizzano l’effetto di questo incontro: «Mi sento sola, ma qui ho trovato qualcuno che mi ascolta. La mia cella non è più solo una prigione. È un luogo dove posso cambiare». A suggellare il volume è la postfazione di Filippo Giordano, professore di economia e studioso di carcere, che ricorda come il reinserimento debba diventare valore condiviso da tutta la società, superando la logica dello stigma. Un libro necessario, che nasce da un “peccato d’incredulità”, come scrive Rossana Ruggiero: «Dovevo vedere con i miei occhi e toccare con mano cosa accade in carcere, per credere». E che oggi diventa uno strumento potente per illuminare ciò che non vogliamo vedere. Perché, come conclude Zuppi, «la condanna peggiore è il non senso. Ma c’è sempre una crepa nel muro. E da lì può filtrare la luce».​





Dal sito Famiglia Cristiana

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