C’è un aspetto, spesso decisivo, che nelle emergenze si tende a sottovalutare, è il fattore umano, quella componente particolare del rischio che può essere aumentata o ridotta dai comportamenti più o meno appropriati dei singoli che si trovano a vivere l’emergenza, sia essa un’alluvione, un terremoto, una fuga di gas. Quante persone tra noi sanno davvero quali sono le cose giuste da fare per proteggere sé stessi e i propri cari in questi casi e quanto le istituzioni locali e centrali si adoperano perché questa cultura cresca? A occhio non abbastanza. Ma abbiamo chiesto a chi ne sa più di noi: Daniele Biondo, psicologo dell’emergenza dirigente del centro Alfredo Rampi, che da 40 anni si occupa di diffondere in Italia la cultura della prevenzione del rischio.
Dottor Biondo, che cosa si potrebbe fare di più e di meglio per tutelare vite?
«Le emergenze non sono di oggi, da molti anni si sa che il nostro territorio è molto fragile dal punto di vista idrogeologico, sismico, climatico. Molto dipende in parte da fattori oggettivi, strutturali: siamo una terra geologicamente giovane, in movimento, per l’80 per cento collinare e come tale esposta a frane. Abbiamo tanti fiumi, per i quali la combinazione tra disboscamento e poca manutenzione rappresenta un rischio in più. Ora si tratta di gestire il rischio che tutti questi fattori, in aggiunta ai comportamenti dell’uomo, hanno contribuito a generare. E uno dei modi di gestire tutto questo è diffondere nella popolazione, in modo capillare, l’informazione e l’educazione ai comportamenti corretti in emergenza. Se le persone spaventate non sono preventivamente informate dei comportamenti corretti da adottare, rischiano di agire inconsapevolmente in modi che le mettono ancora di più in pericolo. E, spesso, purtroppo i primi minuti, a monte dei soccorsi e di tutti gli interventi, sono decisivi. Per questo occorre costruire consapevolezza dei comportamenti autoprotettivi nella popolazione».
Riusciamo a fare qualche esempio. Che fare per esempio quando l’acqua sale, dato che la cronaca ci porta lì?
«Se la zona è alluvionata, c’è una serie di immediati comportamenti che va attuata e che sicuramente non è stata diffusa neanche nell’ultimo tragico caso nella popolazione: allontanarsi dalla zona allagata, raggiungere subito un’area vicina elevata, evitando, pendii e scarpate. Fare attenzione a voragini, buche, ma anche tombini aperti che sotto la pressione dell’acqua possono esplodere. Non sostare nei sottopassi, vicino agli argini e ai ponti, posti pericolosi perché bastano pochi centimetri d’acqua a far perdere il controllo della macchina. E se non si è in macchina l’ultima cosa da fare è entrare in una cantina allagata per mettere oggetti al sicuro».
Non si dice mai di quale sia il comportamento corretto se si viene sorpresi dall’acqua in auto.
«Il comportamento corretto è portare la macchina nel luogo più sicuro possibile, ossia lontano da argini, ponti, sottopassi: in caso di pioggia con allagamenti occorre fermarsi e aspettare i soccorsi o che la pioggia finisca. Se l’acqua copre la carreggiata bisogna spegnere il motore ed evitare di proseguire o, se possibile, tornare indietro, spesso nel timore si esita a tornare indietro, si cerca di raggiungere velocemente la meta e invece spesso tornare indietro salva la vita. Mai imboccare un sottopassaggio parzialmente allagato, l’acqua potrebbe salire velocemente».
Un problema oltreché di conoscenze di abitudini da consolidare?
«In parte sì: chi di noi tiene in casa a portata di mano un kit dell’emergenza? Una cassetta di pronto soccorso, una torcia, una radio? Nessuno. Non siamo informati e formati a questo. È un problema anche di metodo: questi apprendimenti se non sono continuativi, ripetitivi, intensi, se non diventano un automatismo decadono rapidamente. Devono diventare sistematici: una protezione personale che si viene periodicamente formati a tenere».
Il canale istituzionale è carente in questo senso?
«Il canale principale, il più capillare che noi usiamo da sempre come associazione, dovrebbe essere la scuola, perché è lì che si raggiungono tutti e si forma il cittadino. Purtroppo non c’è una sistematizzazione di tutto questo: si pensi a quanto importante sarebbe, a quante persone si salverebbero, se tutti conoscessero la manovra di disostruzione, un gesto semplice che si impara in un quarto d’ora e che è decisivo per salvare la vita di una persona che rischia di soffocare. In un Paese fragile la costruzione della consapevolezza di come comportarsi in caso di alluvione, di temporale grave, di terremoto, di frana dovrebbe diventare una priorità, purtroppo la prevenzione nel nostro Paese non paga: rispetto a quando noi siamo nati come associazione (40 anni fa dopo la tragedia di Alfredino Rampi ndr.) si sono fatti passi da gigante in fatto di soccorsi, tema nel quale siamo all’avanguardia nel mondo. Quello che ci manca è invece questo aspetto formativo-preventivo. L’autorità principale di protezione civile è il sindaco: toccherebbe ai Comuni diffondere la cultura della prevenzione secondo i rischi di un dato territorio non nell’immediatezza del pericolo ma prima, perché diventi strutturale e in caso di emergenza sia già patrimonio comune. Anche perché ogni territorio ha una specificità e fattori di rischio differenti. Abbiamo una legge che obbligherebbe i sindaci a fare una sperimentazione del piano locale di protezione civile ma è disattesa. Il piano è ovviamente diverso a seconda del luogo: un conto è trovarsi una zona con alta concentrazione di industria farmaceutica, e allora si tratterà di imparare a difendersi in caso di contaminazione, altro è trovarsi in una zona ad alto rischio di frane. Si tratta di sviluppare nel cittadino consapevolezza e memoria dei rischi del proprio territorio, perché i fenomeni tendono a ripetersi. Il fiume esondato nelle Marche aveva già fatto danni otto anni fa. E poi si tratta di addestrare le persone a mettere in pratica i comportamenti autoprotettivi».
Ci sono esempi virtuosi nel mondo?
«Certamente uno di questi è il Giappone, un Paese che ha un rischio sismico dieci volte più elevato del nostro e che mette tutti i ragazzini in condizione di fare ogni mese l’esercitazione su come comportarsi in caso di terremoto, accanto alla giacca e allo zainetto tutti tengono appeso l’elmetto. Si tratta di cambiare mentalità e non è facile, il nostro Paese ha una grande ricchezza nella sua creatività ma spesso difetta in organizzazione e metodo. Purtroppo paghiamo a questo limite un prezzo alto in termini di vite umane perché è di questo che stiamo parlando: di attenzione a ogni singola vita. Fare prevenzione vuol dire mettere la vita al centro. Noi abbiamo un territorio al 70% fragile dovremmo attuare un “piano Marshall” della prevenzione. Una mentalità di prevenzione implica non rincorrere sempre le emergenze ma fare una scala di valori diversa, che però latita. Lo vediamo con la nostra associazione, in emergenza la politica ci chiama ci chiede che cosa bisogna fare ma poi si finisce per non farlo».
A pensarci bene anche la Tv di Stato potrebbe fare molto in questo senso, come canale capillare di diffusione per l’educazione e l’informazione della popolazione. Basterebbe che le istituzioni si organizzassero. Anche un buon lavoro di pubblicità progresso potrebbe tornare molto utile. Lanciamo la palla al nuovo Governo quale che sia.
Nel frattempo chi desiderasse informarsi sui comportamenti di sicurezza nelle principali situazioni di rischio segnaliamo che sul sito centrorampi.it/pillole-di-prevenzione/ può trovare informazioni utile e chiare.