Il cordoglio di Leone XIV per le vittime di un grave incendio in Iraq

Appresa la notizia del rogo divampato in un centro commerciale di Kut, nel quale sono morte 61 persone, in un telegramma a firma del cardinale Parolin, il Papa esprime vicinanza alle persone ferite e alle famiglie in lutto e affida le anime dei defunti alla misericordia di Dio, assicurando preghiere per quanti sono impegnati nei soccorsi

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“Rattristato nell’avere appreso dell’incendio” che, in un centro commerciale a Kut, in Iraq, “ha causato numerose vittime e feriti”, in un telegramma a firma del cardinale segretario di Stato Pietro Parolin, Leone XIV assicura la “sua solidarietà spirituale” a quanti “hanno subito gli effetti di questa tragedia”. Il pensiero del Pontefice va “specialmente” alle “persone ferite” e alle “famiglie in lutto”.

Il Papa, inoltre, “affida le anime dei defunti all’amorevole misericordia dell’Onnipotente, offre le sue preghiere per il personale di emergenza che continua a fornire assistenza” e su tutti “invoca le benedizioni divine di forza, consolazione e pace”.

Morte 61 persone

L’incendio nella città di Kut, a circa 160 km a sud-est di Baghdad, è divampato nel centro commerciale Hyper Mall nella tarda serata di ieri. Le vittime accertate sono 61, ha informato il ministero degli Interni, e in gran parte hanno perso la vita soffocate nei bagni. Tra loro 14 corpi carbonizzati che devono ancora essere identificati, ha specificato il ministero in un comunicato. Ancora sconosciute le cause del rogo che si sarebbe originato al primo piano Le ambulanze hanno continuato a trasportare le vittime fino alle 4 del mattino. Sono stati dichiarati tre giorni di lutto nella provincia ed è stato reso noto che le autorità locali intraprenderanno azioni legali contro il proprietario dell’edificio e del centro commerciale, che pare sarebbe stato inaugurato qualche giorno fa.



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Ricorso contro Salvini. Perché si chiede alla Cassazione di intervenire

 

Nessun accanimento, ma la richiesta di chiarimenti definitivi sull’interpretazione del diritto. La procura di Palermo, con il cosiddetto «ricorso per saltum», cioè direttamente in Cassazione, chiede un «vaglio di legittimità». Vale a dire, essendo comunque accertati i fatti storici, i pm del pool coordinato dal procuratore aggiunto Marzia Sabella, si rivolgono alla Suprema Corte per sapere, sul caso che vede protagonista il vicepremier Matteo Salvini e per altri futuri casi analoghi, qual è la corretta interpretazione delle norme.

Facciamo un passo indietro. I fatti accertati sono quelli che riguardano l’impedimento allo sbarco per i 147 migranti a bordo della Open Arms dal 14 al 20 agosto 2019. La decisione di non assegnare un porto sicuro (pos) per tutti quei giorni fu di Salvini accusato di sequestro di persona e rifiuto di atti d’ufficio. In data 20 dicembre 2024 Salvini viene assolto perché il tribunale, pur riconoscendo la verità dei fatti, ritenne che l’Italia non aveva il dovere di assegnare il porto sicuro alla nave battente bandiera spagnola.

Nella sentenza si chiarisce che è vero che i naufraghi, giunti in acque territoriali italiani furono trattenuti contro la loro volontà a bordo della nave, ma si esclude la responsabilità dell’allora ministro dell’Ibterno.

La procura di Palermo chiede, con il ricorso il Cassazione, che sia data la giusta interpretazioni alle leggi italiane e internazionali. «La ritenuta estraneità del ministro dell’Interno, quale autorità nazionale deputata a rilasciare il Pos, rispetto ai tre eventi di salvataggio avvenuti in acque internazionali, è stata sostenuta in ragione del fatto che, secondo il Tribunale, in base alla vigente normativa, l’Italia non poteva essere qualificata né Stato di bandiera né Stato di primo contatto né Stato competente sulla regione Sar (ricerca e soccorso in mare n.d.r.) in cui avvennero i soccorsi». Ma, secondo i ricorrenti «il sistema delle c.d. leggi del mare non prevede, né può prevedere, vuoti di tutela, ancor meno per i soccorsi operati dai, meno attrezzati, natanti privati (che le Convenzioni, facendo continuo riferimento ai “comandanti di navi”, ovviamente includono)». L’Italia, inoltre ha sottoscritto le tre Convenzioni sul soccorso in mare (Solas, Sar, Unclos), che si fondano «su quel principio consuetudinario, frutto “delle più antiche tradizioni marinare secondo cui nessuna richiesta di soccorso in mare deve restare senza risposta”» introducendo così «come imprescindibile corollario, il dovere di solidarietà e sussidiarietà tra gli Stati che, pertanto, sono tenuti a intervenire in caso di inerzia, rifiuto o assenza degli altri».

In sostanza con il ricorso si chiede alla Cassazione di verificare la correttezza da parte del giudice di primo grado, dell’applicazione delle norme e delle procedure senza entrare nel merito della causa ma dando, anche per l’avvenire, una corretta applicazione della legge.

 





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Parolin: situazione insostenibile a Gaza, si distrugge e affama la gente


In un’intervista al Tg2 Post, andata in onda venerdì sera, 18 luglio, il segretario di Stato vaticano ha parlato di telefonata opportuna da parte del premier israeliano Netanyahu al Papa, esortando però a fare chiarezza sul raid che ha colpito la chiesa della Sacra Famiglia di Gaza. L’invito è di far seguire i fatti alle parole. Sulla mediazione della Santa Sede nei conflitti in corso, Parolin ricorda che “ci vuole volontà politica per finire la guerra”, “i costi sono terribili per tutti”

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“Una guerra senza limiti”: è il giudizio su quanto sta accadendo a Gaza da parte del cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato vaticano, intervistato telefonicamente ieri sera, venerdì 18 luglio, dal Tg2 Post, approfondimento della Rai. Il porporato parla di “limiti superati” e di “uno sviluppo drammatico”, invoca chiarezza su quanto accaduto giovedì scorso nell’attacco militare alla chiesa della Sacra Famiglia di Gaza che ha causato 3 morti e 10 feriti, tra cui il parroco, padre Gabriel Romanelli. Riguardo alle tante guerre in corso, ricorda che la Santa Sede è sempre aperta alla mediazione ma “la mediazione – afferma – vige soltanto nel momento in cui le due parti l’accettano”. Si sofferma poi sulla telefonata intercorsa ieri tra il Papa e il premier Netanyahu.

Come considera la telefonata di Netanyahu al Papa?

Credo che è stata opportuna, non si poteva non spiegare al Papa, non informare direttamente il Papa di quanto è successo, che è di una gravità assoluta. Quindi trovo la telefonata positiva, trovo la volontà del primo ministro israeliano di parlare direttamente con Papa Leone positiva. Adesso, credo, ci sono tre cose da attendersi a mio parere da questa telefonata a Papa Leone o dopo questa telefonata: prima di tutto che veramente si facciano conoscere i risultati reali dell’inchiesta che è stata promessa. Perché la prima interpretazione che è stata data è quella di un errore, però è stato assicurato che ci sarebbe stata una indagine al riguardo: quindi che veramente si faccia questa indagine con tutta serietà e che si conoscano, si portino a conoscenza i risultati. E poi, dopo tante parole, finalmente si dia spazio ai fatti. Io spero davvero che quanto detto dal primo ministro possa realizzarsi nel più breve tempo possibile perché la situazione di Gaza è una situazione davvero insostenibile.

La sensazione è che siamo di fronte a una guerra senza limiti…

Certamente è una guerra senza limiti da quello che si è potuto vedere: come si può distruggere e affamare una popolazione come quella di Gaza? Già molti limiti erano stati superati. D’altra parte lo abbiamo detto sin dall’inizio come diplomazia della Santa Sede: la famosa questione della proporzionalità. Per quanto riguarda questo episodio, se va nel senso che lei ha appena descritto, è uno sviluppo drammatico. Io ritorno a dire: diamo tempo per quello che è necessario perché ci dicano effettivamente cosa è successo: se è stato veramente un errore, cosa di cui si può legittimamente dubitare, o se c’è stata una volontà di colpire direttamente una chiesa cristiana, sapendo quanto i cristiani sono un elemento di moderazione proprio all’interno del quadro del Medio Oriente e anche nei rapporti tra palestinesi ed ebrei. Quindi, ci sarebbe ancora una volta una volontà di far fuori qualsiasi elemento che possa aiutare ad arrivare ad una tregua perlomeno e poi ad una pace.

Sono tanti i fronti di guerra aperti: cosa può fare di più la Santa Sede in termini di mediazione diplomatica?

Noi restiamo aperti, anzi ci proponiamo, è stato già fatto in varie occasioni. Aldilà di questo, veramente io vedo difficile fare ulteriori passi, anche perché se usa la parola “mediazione” in termine tecnico, la mediazione vige soltanto nel momento in cui le due parti l’accettano: ci deve essere disponibilità dalla parte di ciascuno dei due contendenti, delle due parti in conflitto, dei due Paesi o delle due popolazioni in conflitto ad accettare questa mediazione della Santa Sede. Noi continueremo ad insistere come abbiamo sempre fatto senza perdere la speranza, però tecnicamente è molto difficile. D’altra parte lei ha visto quante mediazioni esterne al Vaticano non hanno funzionato finora. Ci vuole volontà politica per finire la guerra sapendo che i costi di una guerra sono costi terribili per tutti in tutti i sensi.

Lei questa volontà non la vede?

Purtroppo … non vorrei essere troppo negativo … io spero. Lei mi citava le parole di Netanyahu che la tregua sarebbe vicina: io vorrei crederlo.



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Mattarella: Falcone e Borsellino, esempi per l'oggi



«Le vite di Paolo Borsellino e di Giovanni Falcone sono testimonianza e simbolo della dedizione dei magistrati alla causa della…




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Alla parrocchia di Gaza tornano a suonare le campane dopo l’attacco israeliano


Tre vittime e 11 feriti, è il bilancio del raid israeliano di ieri sulla chiesa cattolica della Sacra Famiglia di Gaza. Il parroco, leggermente ferito, sta bene. Stamani sono tornate a suonare le campane della parrocchia danneggiata. “Profondamente addolorato” il Papa, che rinnova l’appello per “un immediato cessate il fuoco”. L’esercito israeliano parla di ‘errore’ e annuncia un’indagine. Israele non abbandona i piani militari anche in Siria in difesa dei drusi

Marco Guerra e Paola Simonetti – Città del Vaticano

Le forze di difesa israeliane parlano di “un errore di tiro” di un carro armato, il premier israeliano Netanyahu esprime profondo rammarico è annuncia un’indagine su quello che definisce un incidente.

Parole che non placano però lo sdegno e la condanna di tutta la comunità internazionale. Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha chiamato Netanyahu “per chiedere spiegazioni dell’attacco”. Ferma condanna e solidarietà ai cristiani di Terra Santa è arrivata dal presidente francese Macron, da numerosi altri leader occidentali, del Medio Oriente e di tutto il resto del mondo. In una nota il patriarcato latino di Gerusalemme ricorda che circa 500 persone in fuga dalla guerra hanno trovato accoglienza nella parrocchia di Gaza, sperando almeno risparmiare le loro vite.

Padre Romanelli suona le capane a Gaza 

Questa mattina è tornato a farsi sentire padre Gabriel Romanelli, ferito nell’attacco di ieri, con un video in cui mostra le campane della Chiesa della Sacra famiglia che, alle prime luci dell’alba, sono tornate a suonare, malgrado la struttura sia danneggiata. E Papa Leone XIV ha assicurato vicinanza al parroco di Gaza. Il Pontefice ha quindi rilanciato un appello per “un immediato cessate il fuoco” ed espresso profonda speranza di una “pace durevole”.

Nuovi attacchi nella Striscia

Intanto nella Striscia anche questa mattina si sono registrati nuovi attacchi, almeno otto persone sono morte e altre sono rimaste ferite, all’alba, in un bombardamento israeliano su Khan Yunis. Sono circa 100 i palestinesi uccisi dai raid israeliani nelle ultime 24 ore, secondo il ministero della Salute di Gaza.

La situazione in Siria

Resta turbolento anche lo scenario siriano. Israele smentisce la notizia di un ennesimo attacco a Suweida circolata nelle ultime ore, ma solo ieri, in un video messaggio, il premier Benjamin Netanyahu aveva dichiarato: “Non permetteremo che i drusi vengano colpiti. La nostra politica è chiara: demilitarizzare l’area a sud di Damasco”. Dunque, l’esecutivo israeliano chiarisce una volta di più la sua posizione in Siria, dove da domenica scorsa si sono consumati violentissimi scontri fra drusi e beduini con il pesante bilancio di almeno 350 morti.

Le accuse del governo siriano

Violenze per le quali il governo siriano punta il dito contro la comunità drusa, colpevole secondo l’esecutivo di aver violato il cessate il fuoco che ha portato al ritiro delle forze governative dalla provincia nel sud del Paese e di “orribili atti” contro i civili, “compresi – affermano le autorità- crimini che minacciano direttamente la pace civile e spingono verso il collasso della sicurezza”.

Nuovi attacchi in Libano

Israele, intanto, torna a colpire anche il fronte libanese: quattro le persone uccise ieri in due nuovi raid nel sud del Paese che hanno preso di mira posizioni e membri di Hezbollah, nonostante un cessate il fuoco concluso a novembre.



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Faltas: la croce di Gaza è rimasta salda e ferma


La riflessione del Vicario della Custodia di Terra Santa sul significato della Croce e sull’importante presenza dei cristiani a Gaza, simbolo di solidarietà e condivisione con la popolazione sofferente a causa della guerra

di Ibrahim Faltas * 

La croce di pietra bianca, posta sulla Chiesa latina di Gaza, è rimasta intatta, salda e ferma a vegliare su una comunità sofferente e impaurita. È stato il primo pensiero vedendo le immagini della facciata della Chiesa parrocchiale di Gaza colpita da un missile. La croce non è solo un simbolo, per noi cristiani è un segno indelebile, è appartenenza a Cristo, è la carta d’identità della Chiesa universale. La Croce della parrocchia di Gaza ha accolto negli anni le gioie e i dolori di fedeli devoti e uniti, dopo il 7 ottobre 2023 ha accolto anche le loro sofferenze, le loro paure, le loro speranze. A più di seicento persone, fin dalle prime ore di quel tragico sabato, furono aperte le porte della Chiesa, della scuola e dei locali parrocchiali. Con spirito fraterno i sacerdoti e le suore hanno condiviso ogni necessità materiale, hanno confortato nei momenti disperati chi aveva bisogno di speranza, hanno sollevato gli animi tristi di bambini traumatizzati. Nella prima mattinata di giovedì 17 luglio, tutta la comunità parrocchiale ha sentito il rumore assordante e ormai familiare di un bombardamento vicino:  in realtà un missile era già diretto a loro e per molti non c’è stato il tempo di ripararsi. 

Tre persone sono morte, dieci sono i feriti,  due di loro versano in gravi condizioni e fra questi un giovane, Suheil  è in pericolo di vita. Il Santo Padre Leone XIV prega per loro ed è vicino paternamente a tutta la comunità parrocchiale. L’amato parroco Gabriel Romanelli ha subito ferite leggere e, nonostante la paura e la sofferenza, ha subito ripreso la sua missione di padre e di pastore, rassicurando i bambini e gli anziani, confortando i feriti, rimanendo in grande apprensione per i più gravi. Particolare preoccupazione destano anche le condizioni dei 53 disabili ospiti della parrocchia: alla mancanza di farmaci e di cure specialistiche, si aggiunge la perdita e il mal funzionamento di presidi sanitari e di respiratori che hanno subito danni a causa dell’esplosione. La parrocchia è stato rifugio sicuro e accogliente per più di ventuno mesi, la comunità parrocchiale è stata amorevolmente incoraggiata per molto tempo dalla telefonata serale di Papa Francesco che oramai conosceva ogni componente della grande famiglia cristiana di Gaza. Il parroco padre Gabriel, il vice parroco Yousef, suor Nabila prima e le altre suore dopo, sono stati vicini con amore alle paure e ai bisogni materiali e spirituali dei parrocchiani sfollati. Dopo l’attacco di oggi dovranno dare conforto e sostegno all’intera famiglia parrocchiale che sente le tre persone decedute come familiari con cui hanno percorso un lungo e sofferto periodo della vita. La Chiesa di Gaza, oltraggiata dalla violenza, accoglie le preghiere che implorano la pace e che chiedono di ritornare a vivere in sicurezza e con dignità. Sulla parrocchia veglia una croce di pietra bianca, dalle linee essenziali e pulite. Bianca, essenziale, pulita come la pace.

* Vicario della Custodia di Terra Santa



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La scomparsa del cardinale Vingt-Trois, arcivescovo emerito di Parigi


Figura di spicco della Chiesa in Francia, il cardinale André Vingt-Trois è deceduto il 18 luglio all’età di 82 anni. E’ stato presidente della Conferenza Episcopale Francese dal 2007 al 2013, e pastore della capitale per dodici anni, dal 2005 al 2017

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Creato cardinale da Benedetto XVI e arcivescovo della capitale francese dal 2005 al 2017, il cardinale André Vingt-Trois è deceduto venerdì 18 luglio. Una messa in suo suffragio è stata celebrata questo venerdì 18 luglio alle ore 18 nella cattedrale di Notre-Dame di Parigi.

Uomo di fiducia del cardinale Lustiger

Nato il 7 novembre 1942 a Parigi, ordinato sacerdote nel 1969, André Vingt-Trois è diventato vescovo ausiliare della sua diocesi natale nel 1988. Fino al 1999 è stato l’uomo di fiducia del cardinale arcivescovo Jean-Marie Lustiger, garantendo in particolare la continuità del governo della diocesi durante i frequenti viaggi all’estero del porporato. Monsignor Vingt-Trois è stato nominato arcivescovo di Tours nel 1999. Il suo episcopato di sei anni in questa diocesi è stato segnato soprattutto dal riconoscimento ufficiale, nel 2001, dei pellegrinaggi a Île-Bouchard, luogo di apparizioni della Vergine Maria nel 1947.


Il cardinale Vingt-Trois nel 2017, anno del suo ritiro dal servizio pastorale attivo   (AFP or licensors)

L’11 febbraio 2005, Giovanni Paolo II lo ha nominato arcivescovo di Parigi. I suoi 12 anni come arcivescovo della capitale francese ne hanno fatto un interlocutore imprescindibile per i media e per i principali responsabili politici in Francia. Dal 2007 al 2013 ha ricoperto anche la carica di presidente della Conferenza Episcopale Francese. La difesa della famiglia, anche nel contesto del dibattito sul matrimonio tra persone dello stesso sesso, è stato uno dei principali temi del suo magistero episcopale.

Ritiro dalla scena pubblica a causa della malattia

Dal marzo 2017, il cardinale André Vingt-Trois è stato costretto a limitare le sue attività, indebolito dopo aver contratto la sindrome di Guillain-Barré, una malattia che provoca una paralisi parziale. Ha informato Papa Francesco della sua intenzione di ritirarsi dall’incarico di arcivescovo di Parigi subito dopo il suo 75. mo compleanno.

Creato cardinale da Papa Benedetto XVI durante il concistoro del 24 novembre 2007, con il titolo di cardinale presbitero di San Luigi dei Francesi, è stato membro della Congregazione per i vescovi e della Congregazione per le Chiese Orientali, e svolse il ruolo di presidente delegato durante i Sinodi sulla Famiglia del 2014 e 2015.

L’ omaggio della Chiesa di Parigi

In un messaggio pubblicato sul sito della CEF (Conferenza Episcopale Francese), l’attuale arcivescovo di Parigi, monsignor Laurent Ulrich, ha reso omaggio a colui che “è stato molto più che il nostro arcivescovo, ma un pastore, un padre, un esempio; per me, un fratello nel ministero episcopale e nel servizio, e un amico”. “Chiedo che oggi (18 luglio, n.d.r) alle 17, il grande campanone della nostra cattedrale di Notre-Dame di Parigi e le campane di tutte le chiese parrocchiali della nostra diocesi suonino un rintocco funebre per ognuno dei suoi 82 anni, per annunciare ai fedeli di Parigi il ritorno a Dio del loro arcivescovo emerito”.

L’ attenzione ai cristiani d’Oriente

Benedetto XVI lo nominò suo inviato speciale in Libano nel 2009, durante l’anno paolino, e in quell’occasione incontrò tutti i rappresentanti delle Chiese orientali del Libano così come i capi religiosi sciiti, drusi e sunniti. Durante la sua presidenza alla Conferenza dei vescovi francesi, lavorò a stretto contatto con Papa Benedetto XVI sulle crisi del Medio Oriente, come membro della Congregazione per le Chiese Orientali. All’inizio del sinodo delle Chiese sul Medio Oriente del 2010, monsignor Vingt-Trois sottolineò il sostegno della Chiesa cattolica in Francia alle Chiese del Medio Oriente “attraverso l’insediamento e le attività di numerose congregazioni nell’educazione e nell’assistenza, attraverso associazioni sostenute dalle nostre parrocchie latine, in particolare l’Œuvre d’Orient”. L’Œuvre d’Orient lo ricorda oggi in un comunicato per “la sua intelligenza strategica, il suo umorismo in ogni situazione e la sua discrezione, che hanno accompagnato la vita dei parigini e dei cattolici orientali per molti anni”.



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Sud Africa, la Chiesa sta con i minatori

L’attività mineraria è da sempre la delizia e la croce di una nazione che vanta la terza economia più vivace del continente africano. L’impegno dell’episcopato e delle organizzazioni cattoliche per sanare le ingiustizie e difendere gli immigrati clandestini sfruttati nei siti illegali. Padre Peter John Pearson, direttore dell’Ufficio delle relazioni parlamentari della Conferenza episcopale cattolica dell’Africa meridionale: “La riparazione dei torti è anche uno sforzo ecumenico”

Federico Piana – Città del Vaticano

Due facce della stessa medaglia. Una meno selvaggia di quello che si potrebbe pensare. L’altra più problematica e preoccupante. Una legale, anche se fino ad un certo punto. L’altra totalmente illegale, decisamente controversa.

Croce e delizia

L’attività mineraria in Sud Africa è da sempre la delizia e la croce di una nazione che vanta la terza economia più vivace del continente africano e che continua a correre anche grazie a quel settore che conta il 6% del prodotto interno lordo. Una torta dal valore circa 10 miliardi di dollari le cui fette però non vengono spartite equamente tra i proprietari delle compagnie minerarie e le 500.000 persone che lavorano alle loro dipendenze.

Ci vorrebbe di più

Un popolo composto in maggioranza da sudafricani e da un numero crescente di immigrati provenienti soprattutto dall’ Eswatini e dal Mozambico. E qui siamo al confine della legalità: perché loro un contratto ce l’hanno, un salario minimo lo ricevono, ad un quadro giuridico e normativo possono fare riferimento, ai sindacati che li difendono possono iscriversi. Ma non hanno quello che veramente gli spetterebbe.

Ingiustizia storica

Padre Peter John Pearson la definisce un’ingiustizia storica sulla quale è stato fondato fin dall’inizio l’intero comparto economico: «Un’enorme disuguaglianza tra la ricchezza che rimane intrappolata nelle mani dei proprietari delle miniere e i pochi spiccioli che finiscono nelle tasche dei minatori».  Il direttore dell’Ufficio delle relazioni parlamentari istituito in seno alla Conferenza episcopale cattolica dell’Africa meridionale racconta ai media vaticani che la Chiesa locale è impegnata da sempre nella battaglia per riparare i torti storici subiti dai minatori. E ci sono tanti modi per farlo, non solo affiancando i sindacati nella lotta per l’adeguamento salariale: «Ce ne sono diverse, di possibilità. Ad esempio, costruendo, nelle comunità minerarie, scuole e cliniche. Oppure sovvenzionando le famiglie che da generazioni lavorano nelle attività estrattive».

Salute a rischio

Poi c’è il problema della salute, sempre più a rischio. Le condizioni precarie del lavoro in miniera favoriscono la tubercolosi, la polvere respirata senza adeguate protezioni provoca la silicosi. Anche in questo caso la Chiesa locale non è stata a guardare. «Abbiamo intrapreso un’azione collettiva per far risarcire chi si era ammalato ma non aveva avuto alcun indennizzo. Alla fine abbiamo vinto noi» ricorda padre Pearson.

Sforzo ecumenico

La riparazione dei torti storici nel settore minerario è uno sforzo ecumenico che coinvolge anche  la Chiesa anglicana e quella metodista e che è stato accolto con favore dagli stessi proprietari delle miniere, dai lavoratori e dai sindacati. In sostanza, è stato creato uno spazio informale dove, in maniera non ufficiale, si tenta di discutere le problematiche e ricomporre le controversie. «E poi — aggiunge il religioso — quest’azione ecumenica riguarda anche la difesa dell’ambiente: monitoriamo i danni che provoca l’industria mineraria mettendo in crisi la sostenibilità».

 Siti illegali

La tragedia della miniera d’oro di Stilfontein, 150 chilometri a sud-ovest di Johannesburg, nella quale all’inizio di quest’anno sono morte decine di lavoratori rimasti incastrati sotto terra per mesi, rappresenta l’altra faccia della medaglia. Quella completamente illegale. Di siti estrattivi come questo, senza concessioni né autorizzazioni, il governo finora ne ha chiusi e smantellati una sessantina. Ma forse sono solo la punta dell’iceberg.

Senza documenti

E come sono illegali queste miniere fantasma lo sono anche i minatori: sudafricani in fuga dalla disoccupazione e molti immigrati clandestini senza documenti che pur di lasciarsi alle spalle le miserie del proprio Paese d’origine sono disposti ad accettare qualsiasi condizione.

Questione delicata

Ed è qui che la questione si fa delicata, che assume contorni chiaroscuri. Perché se è vero, come dicono governo ed industriali, che le miniere illegali stanno sottraendo all’economia regolare milioni di dollari è vero anche che la lotta a questo settore parallelo sta assumendo toni duri che mirano a criminalizzare gli immigrati che finiscono nelle trappole degli sfruttatori del sottosuolo.

Alta preoccupazione

La preoccupazione di tutta la Chiesa locale e di padre Pearson è ormai arrivata ad altissimi livelli: «L’esistenza delle miniere illegali viene raccontata come un caso di appropriazione da parte dei clandestini e si aggiunge ad un atteggiamento xenofobo che si concretizza con il rimandare molte persone indietro alle frontiere fino a giungere alla detenzione e alla deportazione forzata. Un atteggiamento oggi molto diffuso in tutto il Sud Africa». 

In prima linea

I vescovi e le organizzazioni cattoliche non si tirano certo indietro e aiutano come possono tutti i migranti, anche quelli irregolari. Lo fanno  sopratutto denunciando con forza il sistema di reclutamento della manodopera che in questo caso parte  dal Mozambico e dallo Zimbabwe, nazioni messe in ginocchio da una  povertà estrema.

Tratta in aumento

È una vera e propria tratta, rivela il direttore dell’Ufficio delle relazioni parlamentari, gestita da una sorta di «sindacato del male che promette alla gente la chimera  di un lavoro buono ma che in realtà nasconde sfruttamento senza regole,  malpagato e pericoloso. Questa forma di tratta sta prendendo il sopravvento su quelle che tradizionalmente  gestiscono il lavoro domestico, lo sfruttamento sessuale e l’impiego massacrante nelle aziende agricole e nelle fattorie».



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Goma, epicentro di una crisi umanitaria che non trova soluzione

Milioni di persone vivono in condizioni estreme nell’est della Repubblica Democratica del Congo. Servizi essenziali al limite, intere famiglie senza sostegno. La popolazione resiste tra fame, sfollamenti e violenze. La testimonianza di Depolin Wabo, operatore umanitario congolese del Vis

Sara Costantini – Città del Vaticano

«Non sappiamo a chi rivolgere le nostre preghiere. Nessuno sa cosa succederà, o se ci sarà una fine vicina». Le parole di Depolin Wabo, operatore umanitario congolese del Volontariato internazionale per lo sviluppo (Vis), arrivano da Goma, nel cuore del Nord Kivu. Una terra, dove lo sconforto si è fatto quotidianità e la speranza, ormai, è un bene raro. La provincia del Nord Kivu, con il capoluogo Goma come centro nevralgico, è l’epicentro di una crisi che non si ferma. Secondo gli ultimi dati, più di 21,2 milioni di persone nel Paese necessitano di assistenza umanitaria. Di queste, 7 milioni sono sfollate interne. Numeri che raccontano di una tragedia continua, alimentata da decenni di instabilità, ora aggravata dalla nuova ondata di violenze portate avanti, in particolare, dal gruppo armato M23 che tra gennaio e febbraio di quest’anno ha occupato ampie parti del territorio del Nord e del Sud Kivu inclusi i capoluoghi Goma e Bukavu. La pace mediata dagli Stati Uniti non sembra in grado di portare un sollievo effettivo alla popolazione martoriata.

Ascolta l’intervista in francese a Depolin Wabo

Una vita di incertezze

Il volto dell’est della Repubblica Democratica del Congo è quello di una madre che torna al villaggio e non trova più la casa. È quello di un bambino che non ricorda più cosa significhi andare a scuola. È quello di chi, pur sopravvivendo, si chiede ogni giorno se domani ci sarà ancora qualcosa da sperare. Le violenze hanno provocato fughe di massa, lasciando dietro di sé villaggi distrutti, famiglie spezzate e un senso crescente di abbandono. Chi riesce a tornare, trova macerie. Alcuni provano a riprendere una parvenza di vita normale, ma senza cibo, senza sicurezza, senza servizi essenziali, la normalità resta un miraggio. «Le cose qui non stanno migliorando in modo positivo — racconta Depolin — siamo stati a Chacha e anche a nord della città di Goma per svolgere un’indagine. La situazione è allarmante. Le persone cercano di riprendere una vita normale, ma ci sono ancora molte sfide. Sono agricoltori e devono coltivare per sopravvivere. Ma quando si coltiva, non si raccolgono i frutti nello stesso giorno. E poi, non c’è garanzia di sicurezza: viviamo ancora nell’incertezza».

Emergenza continua

La vita quotidiana è segnata dalla fame e dall’insicurezza. A causa dell’aumento vertiginoso dei prezzi — fino al 35 per cento a Goma e Bukavu — due famiglie su tre non riescono più ad accedere ai mercati. Secondo i dati del Vis, il 70 per cento delle famiglie consuma meno di due pasti al giorno e, per molti, le scorte alimentari non superano i cinque giorni. «Il denaro non circola. La maggior parte delle persone ha soldi in banca, ma non può accedere al conto corrente. Alcuni per fare un prelievo devono viaggiare, attraversando due o tre paesi, per arrivare a Kinshasa o a Beni. Questa è la vita a Goma», aggiunge Wabo. Ma la crisi non è solo economica o alimentare. È anche educativa. È un’emergenza invisibile che colpisce un’intera generazione. «L’anno scolastico si è interrotto. Alcuni bambini hanno cercato di riprendere, ma non possono recuperare ciò che hanno perso. E ci sono quelli che non hanno più voglia di andare a scuola. Ma come possono riaprire le scuole? Gli insegnanti non sono pagati. I genitori non hanno soldi. Alcune scuole sono state distrutte, diversi villaggi sono stati abbandonati per anni. La situazione è difficile»

Sogni spezzati

Di fronte a questo scenario, i bisogni primari restano fondamentali: cibo, alloggio, protezione. «I bisogni urgenti sono quelli alimentari. Non c’è cibo. E anche se c’è, per comprarlo manca il denaro. Quindi il cibo è una priorità. Ma anche l’alloggio. Molte case sono state bruciate, distrutte dalle bombe, oppure abbandonate. Molti — spiega Wabo — vivono in modo indegno». La guerra ha privato le persone non solo dei loro beni materiali, ma anche della dignità, del ruolo sociale, dei sogni. Come nel caso della donna che Wabo ha incontrato nel villaggio di Chacha. «Durante una nostra indagine, mi sono imbattuto in una signora che avevo già visto a Goma, in un campo di sfollati dove ero in missione — racconta Wabo —. Mi è venuta incontro, l’ho riconosciuta. Mi ha colpito vederla povera; prima aveva una proprietà ed era rispettata nel suo villaggio. Ma la guerra l’ha impoverita. Adesso vive in una piccola capanna con la famiglia. Le figlie non vogliono più studiare, erano ragazze con dei sogni. La madre non ha più nulla solo perché si trovava nella parte sbagliata della Repubblica Democratica del Congo. Ce ne sono molte di storie così. Tante, troppe.»

Piccole speranze 

In questo scenario di dolore e precarietà, il Vis, insieme ai salesiani di Don Bosco, cerca di mantenere viva una fiamma, anche se piccola: quella dell’umanità. «A Goma, non tutti gli sfollati sono tornati nei loro villaggi. Alcuni vivono in famiglie ospitanti, altri si sono integrati nella comunità, ma i loro figli non vanno a scuola e non lavorano. Ci occupiamo di questi bambini. Diamo loro porridge caldo, una o due volte a settimana, per rafforzare la salute. Cerchiamo di creare anche spazi dove possano giocare. Questo il senso del nostro lavoro insieme ai salesiani», racconta Depolin Wabo. La sensazione diffusa è quella di un aiuto che, per quanto prezioso, non può bastare. I bisogni sono troppi, la fragilità radicata. Eppure, resistere è già una forma di speranza. «Siamo stanchi, disillusi, feriti. Ma siamo ancora qui. E dove possiamo, raccontiamo che un futuro è ancora possibile. Anche se, oggi, è complicato crederci».

 



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Agis, ottant’anni di spettacoli e cultura

Presentati a Roma gli eventi celebrativi per gli 80 anni dell’Associazione Generale Italiana dello Spettacolo. Giornate di approfondimento, un logo celebrativo, un premio, una mostra e incontri di approfondimento ci aspettano da qui al 7 dicembre

Marco Di Battista – Città del Vaticano

L’Italia usciva dalla Seconda Guerra Mondiale e tentava di ricostruire il tessuto sociale. Nasce così, il 7 dicembre 1945, l’Agis – Associazione Generale Italiana dello Spettacolo. Ecco perché nei prossimi mesi assisteremo a una lunga serie di eventi che culmineranno il giorno dell’ottantesimo compleanno. La presentazione, avvenuta a Roma nella Sala Spadolini del Ministero italiano della Cultura, non è stata l’occasione per guardare indietro ma piuttosto accogliere i cambiamenti intercorsi durante i decenni e puntare decisamente al futuro.

Anche accettando la sfida delle piattaforme on line. Come ci ha detto Francesco Giambrone, Presidente dell’Agis: “Il digitale è sempre un nostro amico. Nel periodo del covid è stato l’unico grande vero straordinario alleato che di fatto ci ha permesso di tenere in vita un sistema che altrimenti sarebbe morto. E non sappiamo con quali conseguenze. – Prosegue Giambrone- Noi invece siamo rimasti aperti nonostante i teatri fossero chiusi e siamo rimasti in funzione con le nostre orchestre, i nostri cori, con chi danza e chi recita. Siamo rimasti aperti grazie a questa grande alleanza. Finita la pandemia credo che questa sia una delle cose positive che la pandemia ci ha lasciato, capire che questi strumenti di innovazione tecnologica possono essere dei grandi alleati per chi ogni giorno fa spettacolo dal vivo cioè in presenza di pubblico”.

È ancora il Presidente dell’Agis a delineare i punti di forza di questa associazione: “Ha accompagnato il Paese negli anni della storia repubblicana in un momento di grande cambiamento, che è ancora in corso e che deve avere sempre degli elementi di innovazione, in una grande casa di tutto lo spettacolo dal vivo e dell’esercizio cinematografico”. Giambrone poi ricorda qualche numero per fotografare la situazione di oggi: “Ci sono 14.000 associati; sono circa 5000 le sale cinematografiche e teatri che sono aperti ogni sera in tutto il Paese, nelle grandi città, nei piccoli centri e rappresentano i veri unici luoghi di aggregazione laica in Italia. Sono luoghi fondamentali di democrazia, di partecipazione: festeggiamo per questo perché celebriamo un Paese libero e un Paese che cresce in tutto”.

Ricco il calendario di eventi che sono stati presentati e che si svolgeranno fino a dicembre, coinvolgendo tutto il mondo dello spettacolo: la prosa, tra gli altri con il Teatro Argentina di Roma e il Piccolo di Milano, la musica, con il Teatro alla Scala e l’Opera di Roma (di cui Giambrone è Sovrintendente) e poi cinema, mostre e convegni.

Oltre al Presidente dell’Agis Francesco Giambrone, alla conferenza stampa di presentazione sono intervenuti il Sottosegretario alla Cultura On. Gianmarco Mazzi, il Sottosegretario alla Cultura Sen. Lucia Borgonzoni, il Presidente SIAE Salvatore Nastasi e la Rettrice dell’Università IULM Valentina Garavaglia (il logo celebrativo è stato realizzato dagli studenti dell’Istituto milanese).



Dal sito Vatican News