Prega per la pace, il Papa. Nel giorno di Santo Stefano rilancia il sostegno per la campagna di Caritas internazionalis per la remissione del debito dei Paesi poveri, per trasformare «il debito in speranza». Perché la questione della povertà è strettamente collegata alle guerre. «Basta colonizzare i popoli con le armi», dice Francesco, «lavoriamo per il disarmo, contro la fame, contro le malattie, contro il lavoro minorile e preghiamo per la pace in tutto il mondo». Cita l’Ucraina, Gaza, Israele, Myanmar. Incoraggia i pellegrini a varcare la porta santa proprio per costruire pace e fratellanza.
Agli amici ebrei, che la sera del 25 hanno cominciato la “festa delle luci”, l’Hanukkah, invia gli auguri di «pace e fraternità».
E, ancora, torna, a parlare dell’apertura della Porta Santa a Rebibbia, «una cattedrale di dolore e della speranza».
Prima aveva commentato il martirio di Santo Stefano per sottolineare proprio il tema del perdono. IL primo martire cristiano, spiega il Papa, «morendo, prega per i suoi uccisori. Questo ci fa riflettere: infatti, anche se a prima vista Stefano sembra subire impotente una violenza, in realtà, da uomo veramente libero, continua ad amare anche i suoi uccisori e ad offrire la sua vita per loro, come Gesù, offre la vita perché si pentano e, perdonati, possano avere in dono la vita eterna». Stefano, insiste Francesco, «ci appare come testimone di quel Dio che ha un solo grande desiderio: «Che tutti gli uomini siano salvati”». E dunque, mai dimenticare che «Stefano è testimone di quel Padre che vuole il bene e solo il bene per ciascuno dei suoi figli, sempre; il Padre che non esclude nessuno, il Padre che non si stanca mai di cercarli e di riaccoglierli quando, dopo essersi allontanati, ritornano pentiti a Lui. Il Padre che non si stanca di perdonare, ricordate questo: Dio perdona sempre e Dio perdona tutto».
E ancora oggi sono tanti i martiri nel mondo, «molti uomini e donne perseguitati, a volte fino alla morte, a causa del Vangelo. Anche per loro vale quello che abbiamo detto di Stefano. Non si lasciano uccidere per debolezza, né per difendere un’ideologia, ma per rendere tutti partecipi del dono di salvezza che hanno ricevuto dal Signore Gesù Cristo. E lo fanno in primo luogo proprio per il bene dei loro uccisori, e pregano per loro. Ce ne ha lasciato un esempio bellissimo il Beato Christian de Chergé, un martire del nostro tempo, che chiamava il suo uccisore “amico dell’ultimo minuto”». Sulle loro orme anche noi dobbiamo chiederci se siamo in grado di volere il bene di chi ci fa soffrire e se ci interessiamo davvero di tanti nostri fratelli e sorelle perseguitati a causa della fede».