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A Parigi le Olimpiadi delle polemiche. Per fortuna ci sono gli atleti

Due settimane di olimpiadi a Parigi e le polemiche sono più numerose che gli urrà per le vittorie. Un po’ perché gli italiani sono stati finora parecchio maltrattati, guarda caso, e un po’ perché i francesi hanno fatto di tutto per agitare le acque.

Partiamo proprio dall’acqua, per non essere subito tacciati di fondamentalismo cattolico e poi andiamo a ritroso, fino alla cerimonia di apertura. L’acqua della Senna, un miliardo e mezzo speso per purificarla, è sporca, e lo smacco alla grandeur dovrebbe indurre alle scuse e all’umiltà. Macché. Stupidi noi a non fidarci o a rimbrottare per gli spostamenti di data nelle gare. La piscina olimpionica? Due metri e venti, anziché i tre di prassi e la minor profondità rallenta gli atleti. Ma per i francesi sono scuse e maldicenze.

Su tutto, l’asfissiante, ostentata, esagerata ossessione per l’inclusione. Sono state dolorose le polemiche per le due pugili sul ring: in nome di una testarda posizione ideologica, si è costretta una campionessa a ritirarsi, fiaccata dalle pressioni, e l’altra a vincere con lo stigma del suo essere “diversa”, non normale, e magari di aver falsato la sua vittoria. Semplicemente ci voleva attenzione alle regole prima, evitando strumentalizzazioni politiche e bandierine da sventolare.

E arriviamo all’ultima cena delle Drag Queen. Non era una parodia di Leonardo, siamo noi cattolici a pensar male (mica tutti, tra l’altro, la soggezione culturale dilaga). E pure i musulmani, che manie. Non era una parodia, ma gli ideatori si scusano per la parodia. Non si sono scusati per la pioggia battente sulle teste dei capi di Stato (Macron all’asciutto) ma per la parodia di paillettes e labbroni siliconati alla sacra mensa sì. Non c’entrava nulla con lo sport lo spettacolo mélange di rock pop techno, era solo offensivo, sguaiato e rozzo. Anche stupido, perché è stupido mancare di rispetto ai credenti, quando ti imponi di includere e inneggiare a liberté, égalité eccetera. La fraternité è desaparecida.

Per fortuna poi ci sono le stelle dello sport: che si fanno il segno della croce prima di gareggiare, e non per sfida, ma come gesto abituale, che parlano di conversione come le due judoke oro e argento del Brasile, che dicono in diretta televisiva: «Gesù è la via, la verità e la vita», come nella testimonianza allegra e decisa di una ragazzina di 16 anni, Rajssa, anche lei brasiliana, la prima a vincere una medaglia d’argento nello skateboard. Lei non si vergogna. E neanche il bistrattato Djokovic, che a favor di telecamera non nasconde la catenina con la croce.

Perché noi ci vergogniamo? Perché i distinguo per paura di non essere abbastanza moderni, à la page, aperti? Si dialoga e ci si incontra quando si ha coscienza di chi si è. Identità non è una parola brutta, significa visione. Ce l’abbiamo ancora, una visione del mondo a partire dall’incontro con Gesù?





Dal sito Famiglia Cristiana

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