Marcello Filotei – Città del Vaticano
«Tradizione è custodire il fuoco, non adorare le ceneri» diceva Gustav Mahler. Per questo tornare costantemente sullo stesso testo per dargli una veste diversa per un compositore non è mai stato un problema. Semmai la questione riguarda il modo di approcciarlo, la disponibilità ad assecondarlo, la voglia di stravolgerlo, o semplicemente il coraggio di affrontarlo. Se si decide di confrontarsi con il grande alfabeto della musica sacra difficilmente si può evitare il Veni Creator Spiritus, il canto pensato esattamente per momenti come questo perché non è solo una preghiera liturgica per la Pentecoste, ma un vero e proprio archetipo spirituale: una richiesta rivolta allo Spirito Santo perché infonda sapienza, quella di cui hanno bisogno in questi giorni i cardinali chiusi in Conclave. Scritto in latino nel IX secolo, attribuito con una certa sicurezza a Rabano Mauro, abate e teologo della scuola palatina di Carlo Magno, questo inno ha mantenuto per secoli le stesse parole, ma la musica ha assunto forme molto diverse, adattandosi al linguaggio di ogni tempo e riflettendo diverse visioni del sacro. Ripercorrere la storia musicale di questo campo è un’impresa da enciclopedisti, ma in poche righe si possono indicare alcuni punti fermi, dai quali difficilmente si può prescindere. Giovanni Pierluigi da Palestrina nel pieno Rinascimento, Gustav Mahler al culmine del sinfonismo romantico, e Maurice Duruflé nel Novecento francese.
Palestrina e l’equilibrio dell’invisibile
Il primo è una specie di equilibrista che nel XVI secolo, proprio quando la riforma tridentina aveva imposto alla musica sacra una nuova sobrietà, si è assunto il compito garantire l’intellegibilità del testo senza rinunciare alla polifonia. Più voci si sovrappongono, ma il fedele non perde una parola. La sua versione del Veni Creator Spiritus è un’architettura spirituale trasparente: le voci si rincorrono nel contrappunto imitativo, ma la
parola è sempre intelligibile. Qui lo Spirito è luce interiore, e la melodia gregoriana da cui tutto deriva resta come cantus firmus, un termine tecnico che si usa quando una melodia costituisce la base di una composizione polifonica. Il suono è astratto, puro, senza tempo. Questo è lo Spirito Creatore per Palestrina.
Mahler e la spiritualità come totalità
Per Mahler, invece, che si muove nel cuore dell’Ottocento tardoromantico, in un’epoca dove l’idea di sacro si frantuma e si ricompone in nuove sintesi, si tratta di una vera e propria reinvenzione. Il suo inno risuona nell’imponente apertura dell’Ottava Sinfonia, detta “dei Mille” per il numero sterminato di interpreti richiesti. Composto nel 1906, questo lavoro unisce l’antico testo latino al finale del Faust di Goethe, fondendo teologia e filosofia in un’unica tensione. L’invocazione allo Spirito Creatore diventa così non più una semplice preghiera, ma l’inizio di un percorso sinfonico-mistico. Mahler concepisce il sacro come totalità, che per lui significa totalità sonora. Per questo ha bisogno contemporaneamente di due cori misti, 8 solisti, un coro di voci bianche, una grande orchestra, una celesta, un pianoforte, un armonium, un organo e una quantità di percussioni. Così l’attacco del suo Veni Creator Spiritus diventa un’esplosione di luce, una sorta Big Bang, dove lo Spirito non solo consola, ma è soprattutto il principio vitale, il soffio che muove l’universo. La sua musica non è indirizzata alle chiese, ma ai teatri, al mondo, a tutti gli umani. Mahler sembra cercare più la vertigine che l’introspezione, in pieno stile romantico, un periodo nel quale l’infinito si cerca attraverso l’arte.
Duruflé e la nostalgia del sacro perduto
Dopo quell’esplosione universale, nel XX secolo, in un’epoca segnata da guerre e da una forte crisi di senso, Maurice Duruflé ha avuto la necessità di volgersi indietro, di tornare alla tradizione, cercando nel passato una chiave per ridare forma al sacro. Il suo Veni Creator Spiritus, del 1930, è scritto per organo solo. Il testo sparisce, rimane solo la melodia che emerge e scompare in un flusso articolatissimo. Come organista titolare di Saint-Étienne-du-Mont a Parigi, Duruflé era un profondo conoscitore del repertorio gregoriano, ma anche lui sente l’esigenza di rileggere quell’inno alla luce di quello che era successo nella storia della musica. Quando si guarda intorno e vede Debussy e Ravel con le loro raffinatissime armonie, non li può ignorare e del resto nemmeno vorrebbe. Il suo Veni Creator è una meditazione senza parole, un gesto sonoro che evoca, più che dire. Una musica che non afferma, ma interroga.
Un testo, tre visioni, un unico respiro che va dal rigore geometrico di Palestrina, alla monumentalità sinfonica di Mahler, fino all’introspezione di Duruflé. Il Veni Creator Spiritus mostra come la musica sacra sia una lunga conversazione con l’Invisibile e come ogni epoca proietta in quelle parole la propria idea di Dio, di Spirito, di creazione. Almeno quando si custodisce il fuoco, invece di adorare le ceneri.