Raid di droni sull’aeroporto e su una base militare. A fuoco il principale deposito petrolifero del Sudan. L’esercito accusa i paramilitari dell’Rsf. Padre Jorge Naranjo, direttore del Comboni college of science and technology a Port Sudan: in città l’elettricità manca da più di due settimane, adesso sono state prese di mira anche le riserve di gas e benzina. Se le organizzazioni internazionali dovessero essere costrette a lasciare la località sul Mar Rosso «la crisi umanitaria peggiorerebbe»
Giada Aquilino – Città del Vaticano
Per il terzo giorno consecutivo, raid di droni attribuiti dall’esercito sudanese ai paramilitari delle Forze di supporto rapido (Rsf) hanno preso di mira Port Sudan, sul Mar Rosso. Nella città, centro nevralgico del Sudan e di fatto capitale temporanea dopo lo scoppio del conflitto, il 15 aprile 2023, sono stati colpiti l’aeroporto e una base militare, provocando significativi incendi e colonne di fumo, innalzatesi anche dal principale deposito petrolifero del Paese africano. «La situazione è molto preoccupante perché Port Sudan era diventata un rifugio, un “posto sicuro” per migliaia di persone che avevano sperimentato la violenza della guerra e che erano state costrette a fuggire dalle loro terre, ma anche per le organizzazioni umanitarie, che qui si sono installate per operare e servire la popolazione», testimonia padre Jorge Naranjo, direttore del Comboni college of science and technology a Port Sudan. «L’aeroporto internazionale è stato l’unico funzionante nel Paese in questi mesi e, dopo il primo attacco, la notte fra sabato e domenica scorsi, i voli erano stati fermati e poi ripristinati nel pomeriggio, ma questa notte c’è stato il nuovo attacco e quindi è stato chiuso». In via precauzionale il Servizio aereo umanitario delle Nazioni Unite (Unhas) ha temporaneamente sospeso i voli da e per la città. Un quadro che aggrava la più grande crisi umanitaria al mondo, come l’Onu ha definito quella in Sudan, con quasi 13 milioni di sfollati e oltre 3 milioni di profughi fuggiti nelle nazioni limitrofe. A Port Sudan «l’elettricità manca da più di due settimane perché erano stati colpiti la centrale idroelettrica di Meroë, dove sorge una diga sul Nilo, e dei trasformatori che distribuivano l’energia elettrica a tutto il Paese». Adesso, aggiunge il missionario comboniano spagnolo, in Sudan dal 2008, sono stati presi di mira «anche i depositi di gas e di benzina, il che fa pensare che a breve mancheranno pure quelli oltre all’elettricità».
La situazione sul terreno
L’esercito agli ordini del generale Abdel Fattah al-Burhan, che da poco ha riconquistato la capitale Khartoum, in oltre due anni di guerra aveva di fatto consolidato il proprio controllo nel nord e nell’est del Paese, con i paramilitari del generale Mohamed Hamdan Dagalo più presenti invece nella regione occidentale del Darfur e in alcune parti del sud. Ora comincia invece «una nuova fase di questa guerra», osserva padre Jorge, riferendo la ricostruzione fornita dai militari. «Le Forze di supporto rapido hanno ricevuto dei droni tecnologicamente più avanzati e capaci di percorrere distanze più lunghe, il che fa pensare ad attacchi a distanza. Secondo il portavoce dell’esercito, sembra che gli attacchi siano venuti da est, da una base di Bosaso, in Somalia, anche se inizialmente qualcuno aveva parlato di raid partiti dal sud della Libia».
Di fatto, comunque, quello che non si è mai fermato in questi mesi è stato l’afflusso delle armi. «C’è un’escalation continua» in tal senso, constata il sacerdote: le forze in campo «usano l’oro del Paese per comprare queste armi, che vengono da fuori: ci sono rapporti di stampa, Reuters, France 24, The Wall Street Journal, che indicano una connessione fra Rsf ed Emirati Arabi Uniti (Uae)», anche se Abu Dhabi nega ogni addebito. In queste ore peraltro la Corte internazionale di giustizia (Cij) dell’Aja ha respinto la denuncia del Sudan di al-Burhan, che accusava gli Emirati Arabi Uniti di aver violato la Convenzione delle Nazioni Unite sul genocidio nei confronti della comunità masalit, presente soprattutto in Darfur, proprio per un presunto sostegno di Abu Dhabi ai paramilitari. I giudici hanno ritenuto di non avere l’autorità per proseguire il procedimento, in relazione a una “riserva” formulata nel 2005 dagli Emirati Arabi Uniti su una clausola che consente ai Paesi di adire la via della Cij in caso di controversia.
Gli sfollati a Port Sudan
Sul terreno comunque rimane l’emergenza a Port Sudan, che è stata la porta d’ingresso degli aiuti umanitari nel Paese negli oltre due anni di guerra. «Si può pensare – riflette il missionario comboniano – che negli uffici delle organizzazioni internazionali che si trovano a Port Sudan si discuta un piano di evacuazione» per i tanti sfollati che lì hanno trovato rifugio. «Prima dalla guerra, la città aveva 350.000 abitanti e le statistiche dicono che adesso ce ne sono il doppio, attorno alle 700.000 persone. Ma poi è stata anche un luogo di passaggio, cioè in tanti hanno lasciato il Sudan attraverso l’aeroporto internazionale. C’è poi una strada che conduce verso l’Egitto, usata purtroppo anche dai gruppi che trafficano gli esseri umani. E c’è il porto, che collega all’Arabia Saudita. Ma una cosa è certa: se le organizzazioni internazionali dovessero lasciare il Paese, la crisi umanitaria, che è già gravissima, peggiorerebbe ulteriormente». Per gli sfollati di Port Sudan rimane «più facile usufruire dei servizi umanitari, rispetto a coloro che sono in campi più lontani, dove l’accesso per queste organizzazioni è maggiormente complesso. C’è ad esempio un edificio che accoglieva centinaia di studenti universitari e che è diventato un campo di accoglienza». Lo stesso è successo per alcune scuole, almeno quelle ritenute più sicure. Perché la crisi nella crisi è proprio quella dell’educazione.
Con lo scoppio della guerra, «più di 10 milioni di bambini sono rimasti senza scuola e l’87% degli studenti universitari ha visto le loro università non più accessibili». Anche il Comboni college of science and technology è stato costretto a trasferirsi da Khartoum a Port Sudan, riprendendo le lezioni on line già da novembre 2023. «Ad aprile 2024, alcuni Stati che erano rimasti più sicuri, come quello di Port Sudan, lo Stato del Mar Rosso, avevano riaperto le scuole e infatti a dicembre scorso si è tenuta la sessione degli esami di maturità, la prima dopo l’inizio della guerra, per 200.000 studenti. Ma ad esempio oggi, a causa dei bombardamenti su Port Sudan, i genitori impauriti non hanno inviato i loro bambini a scuola».
L’importanza di esserci e l’esempio di Papa Francesco
In un contesto di tanta instabilità, in cui «le parti che combattono in Sudan non hanno al momento un atteggiamento aperto alla negoziazione e al dialogo», è allora ancora più importante per i missionari continuare ad esserci. «Siamo venuti qui per fare “causa comune” con la gente, con il popolo del Sudan e la nostra presenza – assicura padre Jorge – non è in discussione: fa sì che si rafforzi quell’amore che è alla base della nostra missione», aggiunge, ricordando al contempo i tanti appelli di Papa Francesco per la pace nel Paese africano. «Nei cuori della gente sono rimasti i suoi continui auspici per la pace, la sua preghiera e il ricordo constante per il Sudan. Ma non solo. Le persone non dimenticano né il gesto del Pontefice di baciare i piedi ai leader del vicino Sud Sudan, che ha avuto un impatto molto grande non soltanto fra i cristiani qui in Sudan, ma anche in tutta la popolazione, a maggioranza musulmana, né la sua spinta alla fratellanza e al rispetto».