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Il Sudan devastato da due anni di guerra all’ombra di alleanze locali e internazionali

Quasi 13 milioni di sfollati, più di 3 milioni di profughi oltre confine, un bilancio di morti difficile da verificare. Il conflitto nel Paese africano tra esercito e paramilitari «purtroppo non si avvicina minimamente alla fine», sottolinea l’analista politica Irene Panozzo, evidenziando appoggi interni di milizie e gruppi jihadisti, oltre che influenze dall’estero

Giada Aquilino – Città del Vaticano

Quasi 13 milioni di sfollati. Oltre 3 milioni di profughi fuggiti nelle nazioni limitrofe, soprattutto in Ciad, Egitto, Sud Sudan. Decine di migliaia di morti, nel quadro di un bilancio estremamente difficile da quantificare e verificare per la profonda insicurezza sul terreno. Sono i contorni della guerra che da due anni, dal 15 aprile 2023, insanguina il Sudan, opponendo l’esercito di Khartoum (Sudanese armed forces, Saf), agli ordini del generale Abdel Fattah al-Burhan, e i paramilitari delle Forze di supporto rapido (Rapid support forces, Rsf), guidati dal generale Mohamed Hamdan Dagalo. L’Onu l’ha definita come la più grande crisi umanitaria al mondo. «Si tratta di un conflitto che purtroppo non si avvicina minimamente alla fine», sottolinea Irene Panozzo, analista politica e già advisor del rappresentante speciale dell’Unione europea per il Corno d’Africa, richiamando quanto evidenziato da Papa Francesco ormai oltre un anno fa: a inizio 2024 il Pontefice aveva dolorosamente constatato come non si vedesse «una via di uscita» al fragore delle armi in Sudan, per poi continuare incessantemente, anche durante il suo recente ricovero ospedaliero, a pregare per la pace nel Paese africano.

Ascolta l’intervista con Irene Panozzo

Le forze in campo

«Dietro lo scoppio della guerra — spiega Panozzo — c’è una lotta per il potere tra due forze che in realtà erano parte della stessa architettura di sicurezza del regime di Omar al-Bashir», durato trent’anni fino al 2019. «Una è l’esercito nazionale, la parte più istituzionale del settore della sicurezza, l’altra è quella delle Rapid support forces, la forza paramilitare nata in realtà più di vent’anni fa in Darfur, mobilitata e armata dal regime centrale per combattere la guerra sul terreno. Insieme queste due forze hanno deposto al-Bashir nell’aprile di cinque anni fa, quindi in questi giorni ricorre anche quell’anniversario, poi hanno cercato di mantenere il potere cedendo a una coabitazione con le anime — partiti politici e società civile — che avevano animato la “rivoluzione” contro al-Bashir. Quindi hanno esautorato il primo ministro civile nell’ottobre del 2021, dando poi inizio una competizione diretta per il potere».

Nelle ultime settimane all’avanzamento dell’esercito a Khartoum si contrappone un consolidamento dell’Rsf nell’ovest: le forze di al-Burhan controllano maggiormente il nord e l’est e i paramilitari sono presenti nella regione occidentale del Darfur e in alcune parti del sud. Uno schieramento sul terreno che porta a prefigurare una divisione de facto del Paese, che poi, fa notare l’analista, «c’è già da quando la guerra è iniziata, con il fronte che continua a cambiare». L’esercito negli ultimi mesi «è riuscito a riconquistare il terreno che aveva perso nel primo anno e mezzo di guerra e all’inizio di marzo è stato capace di riprendere buona parte di Khartoum, Bahri e Omdurman, che formano un grande conglomerato urbano e metropolitano». Di contro l’Rsf «sembra si stia concentrando di più sul Darfur, regione grande come la Francia: punta alla conquista della capitale del Darfur settentrionale, El Fasher, messa sotto assedio già da maggio dell’anno scorso, con conseguenze umanitarie devastanti per la popolazione. Inoltre i paramilitari hanno recentemente lanciato attacchi con droni pure nella parte più settentrionale del Paese, verso il confine con l’Egitto, finora mai toccata dai combattimenti».

Gruppi e milizie locali

Entrambe le parti in guerra non sono però «attori unici», ma espressione di «coalizioni di gruppi diversi», proprio quando il Movimento islamico — zoccolo duro del regime di al-Bashir — tenta di risollevarsi. «Sicuramente il Movimento islamico sudanese ha rialzato la testa già subito dopo il colpo di Stato del 2021 e poi con l’inizio della guerra. Ma in questo quadro c’è tutta una serie di gruppi armati, milizie di stampo islamista, jihadista per loro stessa definizione, come per esempio la al Bara Ibn Malik Brigade, che stanno combattendo insieme all’esercito, oltre a una serie di altre milizie locali che hanno anche cambiato sponda più di una volta. Ce n’è una in particolare, quella delle Sudan shield forces, che all’inizio della guerra stava con l’esercito, poi è passata all’Rsf e ha permesso ai paramilitari di prendere Wad Madani, capitale dello Stato di Al Jazirah, e poi è ripassata con l’esercito, consentendo alle forze armate sudanesi di riprendere la città. La stessa cosa vale ovviamente per l’Rsf, che si è alleata con tutta una serie di altri gruppi di autodifesa, milizie su base tribale, in un protrarsi di quello che è stato drammaticamente il modello di combattimento delle guerre civili in Sudan fin dall’inizio degli anni Ottanta».

Crimini e violenze

Entrambe le parti belligeranti sono state accusate dall’Onu di crimini di guerra e contro l’umanità. L’Rsf pure di genocidio. «Le verifiche sono difficilissime perché di fatto l’accesso a tutte le zone di guerra è molto limitato. Ci sono state indagini, soprattutto da parte di Human Rights Watch e di altre organizzazioni simili condotte intervistando i profughi arrivati in Ciad dal Darfur. Le accuse di stragi di impronta genocidaria fatte all’Rsf riguardano in particolare gli scontri avvenuti a El Geneina, la capitale del Darfur occidentale, che è molto vicina al confine con il Ciad. In quel caso si trattava di scontri che avevano però un’origine risalente probabilmente già alla guerra del Darfur» dei primi anni Duemila, con un bilancio di oltre 300.000 morti. «Dopo la riconquista da parte dell’esercito di Wad Madani, ci sono state accuse pure nei confronti delle milizie alleate all’esercito, per attacchi motivati etnicamente contro popolazioni non arabe o percepite come potenziali sostenitrici dell’Rsf. E negli ultimi giorni l’Alto commissario per i diritti umani delle Nazioni Unite, Volker Türk, ha detto che l’Onu ha evidenze di assassinii extragiudiziali condotti in alcune parti di Khartoum dopo la presa del controllo della capitale da parte dell’esercito e delle milizie alleate».

Le alleanze internazionali

Oltre metà della popolazione — 26,5 milioni di sudanesi — risulta in una condizione di carenza di cibo severa, con due milioni di persone colpite da un’estrema insicurezza alimentare e 320.000 che soffrono già la fame, mentre la carestia è stata dichiarata in varie zone del Paese, tra cui il campo profughi di Zamzam (Nord Darfur). In questo quadro emergenziale diverse ong, tra cui Medici senza frontiere, hanno denunciato che l’accesso agli aiuti umanitari è stato più volte usato dai belligeranti come arma di guerra. «Purtroppo questa è una lunga “tradizione” sudanese e non solo. Molto spesso l’aiuto umanitario, che secondo il diritto internazionale dovrebbe essere sempre garantito, in realtà viene bloccato e indirizzato verso le comunità e le aree sotto il controllo di una parte e quindi tolto a chi vive nelle aree controllate dall’avversario». In un Paese ricco di oro, «ma anche di altre risorse, come il bestiame, soprattutto dromedari e bovini, oltre che di colture, dal sesamo al cotone», nel quadro di un controllo del terreno che diventa fondamentale sia per le due parti principali sia per i vari gruppi a loro alleati «per poi sfruttare queste risorse locali e mantenere lo sforzo bellico», quello che non si è mai fermato dall’aprile 2023 ad oggi risulta essere l’afflusso delle armi. È tornato in primo piano in questi giorni con lo scontro davanti alla Corte internazionale di giustizia dell’Aja tra i rappresentanti di al-Burhan e quelli degli Emirati Arabi Uniti: la delegazione di Khartoum accusa Abu Dhabi di aver violato la Convenzione delle Nazioni Unite sul genocidio per un presunto sostegno ai combattenti dell’Rsf, mentre gli Emirati Arabi Uniti respingono ogni addebito. La Corte ha comunque deciso di rinviare a data da destinarsi il parere sul caso. «L’alleanza tra Rsf e gli Emirati Arabi Uniti, sempre negata da Abu Dhabi, è stata ribadita da molti analisti, da una serie di indagini di giornalisti e di altre organizzazioni, che parlano fra l’altro di operazioni umanitarie pagate dagli emiratini attraverso il Ciad per portare rifornimenti all’Rsf in Darfur. Dall’altra parte, l’esercito nazionale può contare sull’alleanza dell’Egitto e in parte dell’Arabia Saudita, anche se Riyad ha tenuto un profilo più basso. Poi nell’ultimo anno e mezzo, proprio per la nuova rilevanza acquisita dal Movimento islamista, sono stati riattivati i contatti con l’Iran, che pare abbia venduto armi a Port Sudan, e rinverditi i contatti con Turchia e Qatar, Paesi più vicini alla galassia della Fratellanza musulmana, oltre che con la Russia».



Dal sito Vatican News

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